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L’Arabia Saudita è nel mirino dello Stato islamico?

isis

Tre attentati suicidi hanno colpito lunedì l’Arabia Saudita. Il primo, senza precedenti, s’è verificato ad un posto di polizia nei pressi della moschea del Profeta a Mediana (il secondo sito più importante nella simbologia teologica musulmana), un altro ha preso di mira la zona antistante al consolato americano a Jeddah, il terzo una luogo di culto sciita nella città di Qatif.

È STATO L’IS?

Nessuno, per il momento, ne ha rivendicato la paternità: Daniele Raineri, giornalista del Foglio esperto di fondamentalismo islamico, ha riportato su Twitter un tweet di un chierico qaedista dell’affiliazione siriana Jabhat al Nusra, che ha condannato l’attacco a Medina definendolo “un atto criminale” che deve essere condannato dagli islamici (“Allah distruggerà chi diffonde la discordia e il caos”). Al Qaeda (che non ha comunque grande considerazione di Riad, si ricorderà la serie di attacchi tra il 2003 e il 2006) e Is sono in lotta per la supremazia nel mondo jihadista e si sono vicendevolmente accusate di apostasia. Per questo quella del chierico è un’informazione in più per pensare che si sia trattato di azioni connesse con lo Stato islamico, che ha già colpito nel territorio saudita contro le forze di sicurezza e gli sciiti. Abu Sulayman al Muhajir, questo il suo nome, calca la mano su una considerazione fatta da diversi analisti come Michael Horowitz del Levantine Group: se è stato l’Is ha superato una red line, perché le immagini che circolano dimostrano che non è stata colpita l’Arabia Saudita, ma sono stati colpiti i fedeli musulmani.

RIAD È SICURA

Il principe ereditario saudita Mohammed bin Nayef, ministro dell’Interno, ha cercato di minimizzare la situazione assicurando che la sicurezza del paese non è mai stata così tanto sotto controllo e l’incolumità dei cittadini non è a rischio, ma è chiaro che si tratta di dichiarazioni politiche, perché il Regno è tra gli obiettivi in cima alla lista dei baghdadisti. Nota: colpire la moschea di Nabawi a Medina è un atto geopolitico, perché significa mettere in dubbio le capacità saudite di garantire l’integrità di uno dei due luoghi sacri di cui è custodi: e infatti l’Iran ha già manifestato preoccupazione ufficialmente sulla situazione di sicurezza per i credenti (c’è appesa una diatriba secolare, riaccesa anche dai fatti legati alla strage dell’Hajj di un anno fa). Riad e Ankara sono le due capitali dell’Islam politico che più di tutte si sono “confuse” con il costume, il sistema, l’economia, occidentale, e nonostante enormi contraddizioni rappresentano le alleanze più solide nella regione per l’Europa e gli Stati Uniti (insieme a Israele). Per questa ragione la giunta militarista teologica di Abu Bakr al Baghdadi ne ha condannato a morte governi e cittadini: questi ultimi hanno ancora la possibilità di pentirsi, secondo la narrativa califfale, e lasciare la via dell’impurezza occidentale, mentre gli establishment, che sono coloro che hanno promosso e inculcato quell’impurezza nella popolazione, hanno già sulla testa una sentenza passata in giudicato. Colpire le sensibilità politico-economiche è una strategia: il turismo in Turchia, per esempio, la sicurezza in Arabia Saudita.

IL RUOLO SAUDITA NEL CALIFFATO

Questo è un argomento che confuta molte delle ricostruzioni più pigre secondo cui lo Stato islamico sarebbe un frutto governativo di certi paesi: gli esecutivi turchi e sauditi, o quelli di altri stati arabi, sono invece in una fase di lotta acerrima contro i baghdadisti, anche se in passato ci sono state linee di collegamento tra singoli cittadini, oppure ombrose organizzazioni private, che hanno favorito con soldi e logistica i gruppi jihadisti. È celebre la registrazione del 2009 diffusa da Wikileaks, ricordata da Guido Olimpio sul Corsera: per il “Dipartimento di Stato i donatori sauditi sono la fonte principale di denaro del terrorismo sunnita a livello globale”. Il link riporta direttamente alle madrasse sponsorizzate dai sauditi e da altri paesi del Golfo per diffondere l’Islam sunnita-wahhabita, con cui la visione rigida del credo ha cercato di espandersi oltre la Penisola araba. La questione tocca da vicino l’attualità italiana più di quanto possa sembrare: dice Kushi Kabir, una delle più famose attiviste per i diritti umani bengalese sempre al Corriere della Sera che “con la diffusione in Bangladesh del wahhabismo, una forma intollerante dell’islam che viene dall’Arabia saudita. Tanti soldi sauditi finiscono in organizzazioni e fondazioni” e aggiunge “c’è un revival religioso che si vede nelle scuole, nella costruzione di enormi moschee con fondi provenienti dall’estero, nell’aumento del numero di madrasse non consentite, registrate o controllate ma assai ben finanziate”. Per Kabir non c’è dubbio che sia questo uno dei motivi per l’attecchimento delle istanze più estremiste e militanti (anche quelle dell’IS) in Bangladesh, le cui conseguenze sono tristemente venute a galla con l’attacco di venerdì scorso all’Holey Artisan Bakeery.

LA DIFESA DI RIAD

Dal ministero dell’Interno di Riad si recita una dichiarazione già sentita: nel Paese non ci sono cellule organizzate, dice bin Nayef, chiunque agisca lo fa per propria ispirazione, ma questo è relativo, visto che comandanti sauditi si trovano in cima alla catena di comando dell’organizzazione: è il caso per esempio del nuovo capo dello Stato islamico in Libia, che si chiama Abdel Qader Al-Najdi, dove “Najd” sta per la regione centrale dell’Arabia Saudita da cui proviene. Questi uomini potrebbero facilmente sfruttare il background di conoscenze e contatti per creare strutture locali clandestine che avrebbero facilitazione logistica visto la contiguità del cuore del Califfato appena oltre confine (è vero comunque che, come visto nel resto del mondo, la forza propagandistica del gruppo è grande, e questo potrebbe favorire l’attecchimento delle proprie istanze, soprattutto in una nazione in cui l’Islam legislativo wahabita ha declinazioni integraliste quasi simili a quelle califfali). L’Arabia Saudita è piena di ideologici che hanno preso posizioni radicali sui conflitti in corso, molti sono una forza del governo per contrastare l’espansione sciita dall’Iran, nemico esistenziale, altri sono un imbarazzo, come quelli che veicolavano propaganda anti-americana ai tempi dell’occupazione in Iraq. Il governo cerca di tenere il profilo più basso possibile per evitare incidenti diplomatici e allo stesso tempo godere della predicazione settaria come arma contro Teheran. Gli occidentali sanno di questa ambiguità. Ora il problema per Riad è che certi nervi scoperti aprono il campo agli uomini del Califfo, che pressano sull’incoerenze col dito del tashahud monoteista piazzato sul grilletto dei kalashnikov.


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