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Sarebbe bello se Piercamillo Davigo si scusasse con Ilaria Capua

PIERCAMILLO DAVIGO

Sarebbe bello se Piercamillo Davigo telefonasse a Ilaria Capua per scusarsi a nome dei magistrati italiani. Un’indagine farlocca ha infamato la reputazione di una delle nostre più brillanti scienziate, costretta a traslocare negli Stati Uniti dove attualmente dirige un centro di eccellenza, l’One Health della University of Florida. Accusata di essere la mente del “businnes delle epidemie” (copyrigth l’Espresso), una specie di untrice al servizio della “cupola dei vaccini”, dopo un lungo e assurdo calvario giudiziario (il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo non l’ha mai interrogata) è stata prosciolta perché “il fatto non sussiste”. Alla “signora dei virus”, come l’ha definita il giornalista Lirio Abbate, è stato forse restituito l’onore, ma non una vita spezzata da assurde calunnie e una carriera politica stroncata (era deputata di Scelta Civica) da una campagna odiosa in cui si sono distinte le vestali grilline dell’onestà. Il fatto non sussiste, ma l’intercettazione sì. È questo “il virus che non si riesce a debellare” (Luciano Capone, il Foglio).

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“Crediamo di avere un nome, ce lo ripetiamo e lo scriviamo dappertutto, ma la società ci ammonisce. Non il nostro nome le interessa, ma la nostra funzione. Cosicché, volta a volta, noi siamo astanti, iscritti, sottoscritti, presenti, passati, contribuenti, utenti, usufruttuari, richiamati, abbonati, associati, ricorrenti, fedeli, credenti. Siamo destinatari, committenti, depositari, conducenti, correntisti, coniugi, parenti, acquirenti. Siamo in carica, in ausiliaria, in aspettativa, in ferie, fuori posto. Brilliamo dunque sotto aspetti diversi ma per motivi precisi, mai per quel che crediamo di essere in sostanza. E quando lo crediamo, allora eccoci imputati (Ennio Flaiano, “La solitudine del satiro”). Il grande scrittore abruzzese l’aveva già capito mezzo secolo fa: anche tutto questo è identità nazionale.

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Papa Francesco ha ricevuto i genitori di Beau Solomon, il giovane americano gettato nel Tevere a Ponte Garibaldi. Adesso che la giunta capitolina è stata partorita, che aspetta Virginia Raggi?

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Se il governo Renzi dovesse cadere non per la vittoria del No al referendum costituzionale, ma a causa dell’assunzione del fratello del ministro Alfano alle Poste, l’Italia dovrebbe cambiare frutto di riferimento: da Repubblica delle banane a Repubblica delle noccioline.

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Renzi è in angolo? Sì, oggi lo è. Dovrebbe cambiare stile comunicativo? Sì, dovrebbe. La poesia del futuro è ormai stucchevole, soprattutto quando la realtà del presente resta assai prosaica. Sarebbe quindi apprezzabile da parte sua un linguaggio pubblico più sobrio e concreto. Beninteso, non è solo una questione di linguaggio. La verità è che il dato più critico dei presidenti personali sta nell’endemica difficoltà a soddisfare l’alto livello di aspettative che le loro campagne populiste creano nell’elettorato. Mentre sono continuamente esposti alla sorveglianza e agli attacchi, come lo ha chiamato il sociologo Mauro Calise, del “fattore M”: media e magistratura. Due poteri che prosperano nell’azzoppare (magari dopo averlo alimentato) il mito dei leader carismatici. Domani, al posto di Parlamento e partiti, sarà sempre più il fattore M a dettare legge, a influenzare il corso della nostra politica? Chissà se Matteo Renzi in queste ore si sta ponendo la stessa domanda.


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