Se non verrà cancellato l’Italicum, Carlo De Benedetti – come Eugenio Scalfari – voterà no al referendum costituzionale (intervista al Corriere della Sera di oggi). A novembre (o quando sarà), insomma, buona parte dell’élite progressista domestica si recherà ai seggi per bocciare non tanto il monocameralismo e la riforma del Senato, quanto la legge elettorale in vigore dal primo luglio (la cosa in qualche misura è curiosa). Del resto, l’Italicum – si sostiene – premia la minoranza che vince con uno strapotere privo di contrappesi adeguati, e ciò è inaccettabile. Con la sua intervista (peraltro ricca di critiche ben motivate all’operato del governo), De Benedetti si mette alla testa del partito di coloro che…. il pericolo di una deriva plebiscitaria c’è. Pure in Gran Bretagna non dovrebbero pensarla così. Infatti, “nel Regno Unito, patria del governo parlamentare, il primo ministro stabilisce l’ordine del giorno della Camera dei Comuni per i tre quarti del tempo e può porre il veto su emendamenti al bilancio che aumentino la spesa o diminuiscano le entrate. Il capo dello Stato, a differenza dell’Italia, ha un ruolo simbolico e la Camera dei Lord presenta poteri molto limitati. Non esiste una Corte costituzionale e i magistrati sono funzionari del governo. Non vi è il referendum di tipo abrogativo” (Conversazione con Augusto Barbera, Formiche.net, 27 aprile 2015).
Detto questo, non so fino a quando Matteo Renzi potrà più resistere a un “fuoco amico” che rischia di bruciare definitivamente i suoi sogni di gloria. Se vuole conservare qualche speranza di vincere il referendum, dovrà cambiare l’Italicum: ritorno al Mattarellum, doppio turno di collegio alla francese, o altro? Difficile prevederlo ora. Dipenderà anche dai pronunciamenti della Consulta del prossimo ottobre. In ogni caso, in politica contano i rapporti di forza, e i rapporti di forza ci dicono che il premier, se vuole uscire dall’angolo in cui si è cacciato, dovrà fare la mossa del cavallo sulla scacchiera della legge elettorale.
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Un tempo c’era il “fattore K” (copyright Alberto Ronchey), che ha consentito all’Italia democristiana e comunista di restare per mezzo secolo un’enclave partitocratica inviolabile. Dopo la fulminante parabola referendaria di Mario Segni, siamo passati dall’Italia dei partiti a quella di Silvio Berlusconi. È allora che emerge il “fattore M” (copyright Mauro Calise), ovvero quell’intreccio tra media e magistratura che viene considerato dalla sinistra superstite come l’unico argine residuo alla travolgente avanzata del Cavaliere. Una miopia culturale e ideologica di cui ancora oggi paghiamo lo scotto. Prima Monti, poi Letta, quindi lo stesso Renzi hanno dovuto subire il ruolo preponderante del terzo e del quarto potere, fino all’aperta invasione di campo dei giudici (inclusi talvolta quelli della Consulta) sia in partite cruciali per le sorti dell’economia nazionale sia nelle scadenze elettorali. In proposito, basti pensare all’invenzione di fantasiosi profili di colpevolezza sub-giudiziari come la categoria degli “impresentabili”. Per non parlare delle inchieste più recenti, che da ultimo hanno creato più di un grattacapo alla maggioranza parlamentare facendo leva sulle malefatte di qualche faccendiere nei corridoi ministeriali.
Purtroppo, dopo una flebile polemica contro il giustizialismo lanciata all’epoca dello “scandalo del petrolio” in Basilicata (di cui peraltro non si ha più notizia), il premier sembra aver scelto la via del silenzio. A mio avviso, si tratta di un errore. Perché la crescente giuridificazione della politica e, per converso, la crescente politicizzazione dell’azione giudiziaria hanno concorso in misura non trascurabile ad appannare il riformismo del governo. Infatti, dovrebbe essere ormai chiaro anche al presidente del Consiglio che la missione dichiarata del fattore M è quella di azzoppare la “democrazia del leader”. Per questo, c’è da scommettere che da qui al referendum costituzionale (se mai si terrà) non lo vedremo andare in ferie.