“Siamo in guerra”, affermò in un solenne discorso al Parlamento francese François Hollande all’indomani della mattanza di Bataclan (13 novembre 2015). Dopo la carneficina di Nizza, i governi europei (e Barack Obama) continueranno a fare orecchie da mercante? In queste ore, tanto orrore per l’accaduto, tanto cordoglio per le vittime e tanti “non ci piegheremo” o “non ci piegheranno”. Benissimo. Ma resta la domanda: siamo in guerra con l’islam? Siamo ancora in attesa di una risposta chiara e netta. Perché la scelta delle parole è importante. Sbagliare la parola è sbagliare la cosa.
L’aureo capitolo di un prezioso volumetto di Giovanni Sartori (“La corsa verso il nulla”, Mondadori, 2015) si intitola “Guerra terroristica e guerra al terrorismo”. Mi piacerebbe che venisse letto almeno nelle nostre scuole superiori, come esercizio di igiene linguistica e come guida alla lettura critica dei fatti. Secondo il grande politologo italiano chi dice guerra si sente in pericolo mortale; chi dice altrimenti, no. In guerra combattiamo un nemico; ma se la parola è diversa, allora il nemico non c’è o non è chiaramente identificato.
Beninteso, la guerra di cui stiamo parlando è una guerra del tutto inedita, senza passato. Essa è terroristica dal punto di vista dei fini, tecnologica dal punto di vista dei mezzi, globale dal punto di vista territoriale. Ma essa è anche una guerra religiosa, e questo va detto senza reticenze. Specificare così è essenziale, perché altrimenti non si capisce la gravità e la portata dello scontro la cui data convenzionale di inizio è l’11 settembre 2011.
Vedo già molti storcere la bocca. Rassicuro subito le vestali del “politicamente corretto”: dire “guerra religiosa” non vuole dire, ovviamente, che il grosso dell’islam sia fondamentalista, né tantomeno che il fondamentalismo islamico sia intrinsecamente terroristico. Vuole però dire, come sostiene Sartori, che la straordinaria forza del terrorismo islamico deriva da questi due elementi: è alimentato da un fanatismo religioso ed è protetto da una fede religiosa. L’islam è un “grande mare nel quale i terroristi sono gli squali”. Pertanto, i terroristi islamici non sono pesci fuor d’acqua, come i terroristi di matrice ideologica o nazionalistica. Sono pesci cresciuti e moltiplicati dal mare in cui nuotano. Il mare islamico li espellerà? C’è da dubitarne. Combattere il terrorismo islamico è inevitabile e necessario. Ma è assai probabile che produca un radicalismo islamico rafforzato. Nell’insieme, siamo “al cospetto di uno spaventoso crescendo di disumanizzazione”.
Dunque, dobbiamo dire guerra perché dobbiamo essere lucidamente consapevoli del pericolo che corriamo. Noi non siamo gli aggressori, ma gli aggrediti. Una guerra “santa” può nascere soltanto dalle viscere di una religione. Ed è una guerra la cui componente militare è secondaria. È una guerra che si vince o si perde anzitutto in casa. Si vince, se sapremo reagire alla crisi intellettuale e morale in cui versa l’Europa. E si perde se dubitiamo dei nostri valori e della nostra civiltà etico-politica.