Il 15 luglio 2016 la Turchia ha vissuto il primo colpo di stato negli ultimi 35 anni. Il presidente Recep Tayyip Erdogan e il suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) non sono fuggiti ma hanno mobilitato la popolazione invitandola a scendere in piazza. Diverse migliaia di cittadini hanno invaso le strade e hanno condannato apertamente il golpe, arrivando a fronteggiare a mani nude i carri armati degli insorti. Nel frattempo, i partiti di opposizione, i loro militanti e la maggior parte dei vertici militari hanno condannato il colpo di stato lasciando agli insorti ben poca aria da respirare.
Quello che colpisce di questo tentato golpe è stata l’approssimazione con cui è stato progettato e condotto. Vediamo cosa non torna e cerchiamo di dare una spiegazione.
Di fatto, il blitz ha coinvolto Ankara e non il resto del Paese. Nemmeno Istanbul, tre volte più grande della capitale e in posizione strategica. E’ stato ordito da ufficiali di grado relativamente basso (soprattutto colonnelli e una manciata di generali) provenienti sostanzialmente dall’esercito più qualche pilota. Marina Militare e Aeronautica hanno registrato pochissime defezioni. Non è stato cercato alcun appoggio preventivo da parte della popolazione o di qualche partito dell’opposizione.
Al momento del colpo di stato, Erdogan si trovava in un resort della città turistica di Marmaris, lievemente danneggiato, forse bombardato, solo dopo che questi si era alzato in volo. L’aereo presidenziale ha tenuto il transponder acceso per tutto il tempo, senza mai tentare di fuggire all’estero ma gridando al mondo la sua esatta posizione ed il suo zigzagare per i cieli della Turchia fino all’atterraggio a Istanbul senza che alcun caccia o batteria antiaerea abbia tentato di intercettarlo. È evidente che la base USAF situata nella istallazione NATO di Incirlik ha potuto seguire tutti i tracciati radar senza intervenire e non è un caso che Obama sia stato il primo leader mondiale a proclamare il suo appoggio al governo in carica.
Un fattore poco noto che accomuna di storia dell’Italia e della Turchia è che sia i quattro falliti golpe avvenuti in Italia negli anni ’60-’70 che i quattro golpe subiti dalla Turchia negli ultimi 60 anni sono stati tutti anomali: mirati non a rovesciare governi e ad insediare generali ma a pacificare il malcontento popolare, a consolidare il consenso attorno allo Stato sotto attacco e – seppur con qualche cambio al vertice – attorno al potere costituito.
In Turchia, nel 1960 il primo golpe cacciò il governo Menderes che aveva portato la Turchia sull’orlo del default finanziario, il primo ministro fu processato e giustiziato ma i militari cedettero pacificamente il potere un anno dopo al governo democraticamente eletto. Nel 1971 il golpe contro Suleyman fu motivato dalla sua incapacità di attuare le riforme economiche e politiche promesse in campagna elettorale. Se la cavò con le dimissioni e con l’indizione di nuove elezioni. Il golpe del 1980 fu quello più strutturato e più sanguinoso: dopo diversi mesi di scontri fra opposte fazioni politiche, con attentati e omicidi quotidiani, la popolazione accettò di buon grado il golpe ordito da tutte le forze armate. Il rovesciamento fu preparato per un anno intero e, quando venne attuato, non prese di sorpresa nessuno. Dopo tre anni per ristabilire l’ordine, incluse fucilazioni e torture di decine di oppositori, ancora una volta i militari lasciarono il passo alle elezioni. Nel 2010 i generali golpisti sopravvissuti, Tahsin Shahinkaya e Kenan Evren, di 86 e 94 anni, furono processati per le atrocità compiute.
Tutti i golpe turchi possono essere ricondotti alla fedeltà dei militari ai principi enunciati da Mustafa Kemal Atatürk, il generale che ottenne l’indipendenza e fondò la Repubblica Turca sconfiggendo sia la Grecia che l’Impero Ottomano. Il Kemalismo, la dottrina militare lasciata in eredità, si basa sulla difesa dei principi laici instaurati dopo la caduta del dominio del Califfo e affida alle forze armate l’esplicito incarico di assicurare la continuità dei principi statuali anche intervenendo direttamente nella vita politica ogni volta che questa eredità è messa in pericolo.
Solo su queste basi si può tentare di leggere la figura di Erdogan, che – alla guida di una nazione certamente non fondata sui principi democratici – ha voluto dare una impronta occidentale allo Stato con l’evidente obiettivo di entrare nell’Unione Europea da una posizione di forza ma al contempo mantenendo collegamenti con gli esponenti religiosi islamici senza inimicarsi le forze armate.
Quando conquistò il potere nel 2002, ebbe l’appoggio determinante del movimento dell’imam Fethullah Gulen. In cambio di questo appoggio, e del conseguente depotenziamento dell’influenza militare, dovette inserire numerosi giudici fedeli all’imam nell’apparato giuridico e cedere il controllo del sistema scolastico e di numerosi vertici della polizia.
Nel 2011, Erdogan decise che Gulen e il suo partito (Hizmet) stavano diventando troppo forti. Lo estromise accusandolo di corruzione e infine di tradimento. Gulen vive in Pennsylvania dal 1999 e gode non solo di un enorme patrimonio, dell’appoggio di numerosi giudici e ufficiali turchi, di emittenti televisive ed università private in tutto il mondo, ma anche del sostegno dei servizi segreti USA. Per questo pare assolutamente improbabile che Gulen, come scrive Newsweek, non abbia avvisato gli americani dell’avvicinarsi dell’ultimo golpe. Improbabilità ancora più evidente dal rifiuto USA di estradarlo come complice del golpe come richiede ora Erdogan.
Ultimo elemento dell’attuale puzzle geopolitico turco è il recente cambio di strategia di Erdogan stesso.
Solo pochi mesi fa stava pianificando l’invasione della Siria, finanziava e armava il Califfato con armi leggere e missili terra aria in chiave anti Assad, importava di contrabbando petrolio e raffinati da ISIS ed ha abbattuto un caccia russo impegnato nell’eliminazione delle carovane di autobotti che rappresentavano, come scrive il Sole24Ore, la principale fonte di finanziamento del califfato dopo gli aiuti sauditi.
Negli ultimi tempi si è riavvicinato a Israele, ha subito l’umiliazione delle scuse alla Russia per il caccia abbattuto, ha dovuto interrompere la sua guerra segreta contro Assad, incoraggia la realizzazione del TAP – il gasdotto che lo porrebbe come snodo alternativo alla travagliata Ucraina per il rifornimento dell’Europa – e ricatta l’Europa ottenendo denaro per fermare l’invasione dei profughi.
Con queste premesse, sembra naturale interpretare questo tentato golpe in chiave stabilizzante: alcuni militari di fede kamalista sono stati lasciati liberi di complottare ed attuare un golpe facilmente neutralizzabile. Il presidente turco ora può farsi forza del sostegno popolare alla sua eroica reazione e consolidare un regime i cui recenti cambi di direzione avrebbero rischiato di portare su derive eccentriche e, infine, ad una più strutturata reazione dei militari.
Ora Erdogan sta ripulendo tutti i livelli della magistratura, delle forze armate e della polizia dai personaggi più scomodi e consolida un potere assoluto che, se non verrà in qualche modo controbilanciato, rischierà di destabilizzare proprio l’area cuscinetto fra il medio oriente, le orde del califfato, il petrolio … e l’Europa.