Ferragosto, cui Bettino Craxi aveva conferito i gradi di “generale” e la qualifica di “invincibile” perché destinato a spazzare via tutti i problemi, almeno per il tempo necessario a far passare in pace agli italiani qualche giorno di festa, è relativamente vicino. O anche lontano, come preferite. Può quindi accadere ancora di tutto. E un po’ già accade.
Accade, per esempio, che l’assessora all’Ambiente, cioè alla monnezza, della giunta di Roma guidata dalla grillina Virginia Raggi, conoscendo evidentemente bene l’azienda comunale del settore per esserne stata a lungo consulente, peraltro molto retribuita, abbia denunciato il pericolo – pensate un po’ – di “golpe”. Che significa colpo di Stato, augurabilmente limitato in questo caso al Campidoglio, e non esteso al pur vicino Palazzo Chigi, dove Matteo Renzi ha già troppe questioni difficili di cui occuparsi – dalle banche alla Libia – per rovistare anche nella monnezza romana, e temere addirittura di esserne travolto fra le risate di soddisfazione di Massimo D’Alema.
Il golpe della monnezza davvero mancava al campionario dei tentativi di colpi di Stato nella storia estiva italiana. Il più celebre dei quali fu quello del 1964, che fece rischiare il carcere a Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi per averlo denunciato sul loro Espresso attribuendone la colpa al generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo.
Per salvare Scalfari e Jannuzzi dalle patrie galere, dove sembravano destinati da un processo e da un’inchiesta piena di “omissis” sul “Piano Solo” predisposto da quel generale nel ben mezzo di una difficilissima crisi di governo, l’allora vice presidente socialista del Consiglio Pietro Nenni candidò e portò in Parlamento i due giornalisti, proteggendoli con l’immunità parlamentare. Jannuzzi fu candidato in Calabria, dove nel 1968 vinse alla grande e di suo, simpaticamente scambiato dagli elettori per un nuovo Pisacane, e Scalfari a Milano. Dove un giovanissimo Craxi, quasi prevedendone l’irriducibile ostilità che gli avrebbe riservato una ventina d’anni dopo dalle colonne della sua Repubblica di carta, cercò di opporsi. Ma Nenni, convinto che nell’estate del 1964 lui e Aldo Moro a Palazzo Chigi fossero scampati ad un sinistro “rumore di sciabole”, fu irremovibile. E Craxi ubbidì mettendo a disposizione dell’augusto candidato tutti i mezzi, organizzativi e d’ogni altro tipo, del Partito Socialista Italiano.
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Vero o falso che fosse stato quel colpo di Stato attribuito al generale De Lorenzo, destinato comunque pure lui ad approdare in Parlamento come deputato del Movimento Sociale, esso ebbe una drammatica coda al Quirinale. Dove, a crisi di governo risolta con la conferma del centrosinistra, quello vero, della prima o seconda ora, non quelli scopiazzati una trentina d’anni dopo da Romano Prodi e Massimo D’Alema, ci fu un rovinoso alterco fra il presidente della Repubblica Antonio Segni e il ministro degli Esteri Giuseppe Saragat, presente un imbarazzatissimo Aldo Moro.
Saragat, insofferente per le pressioni ricevute a favore di un ambasciatore in corsa per l’assegnazione dell’importante sede diplomatica di Mosca, contestò a Segni di avere lasciato troppo spazio durante la crisi al generale De Lorenzo, ricevendolo con tanto di comunicato ufficiale. Segni, che soffriva di pressione alta, respinse indignato ogni sospetto e nella foga della reazione stramazzò al suolo. A Moro toccò di chiedere soccorso ai corazzieri schierati oltre la porta.
Pur prontamente soccorso, Segni purtroppo si riprese solo in parte e a fine anno, con una procedura improvvisata per la certificazione del suo stato di salute, fu sostituito al Quirinale proprio da Saragat. Alla cui candidatura Moro diede un contributo decisivo che il suo partito, la Dc, subì accusandolo dietro le quinte di avere ceduto troppo agli alleati socialisti e socialdemocratici, cui l’elezione di Saragat doveva servire per la riunificazione, dopo la rottura consumatasi a Palazzo Barberini nel 1947. Una riunificazione che in effetti avvenne, ma durò pochissimi anni.
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Certo, di fronte a questi ricordi il golpe della monnezza denunciato o avvertito dall’assessora della giunta capitolina pentastellata fa più ridere che tremare. Ma la vicenda, nella quale si inseguono i 14 fascicoli che risultano già aperti negli uffici della Procura di Roma e quello o quelli raccolti dalla stessa assessora sulle conoscenze dell’azienda romana per la raccolta dei rifiuti acquisite negli anni della sua consulenza, è inquietante lo stesso. E potrebbe prima o poi dare ragione a quella senatrice grillina che prim’ancora dell’apertura ufficiale della campagna elettorale parlò di una “congiura” per far vincere le elezioni capitoline al suo partito e fargli fare poi la fine miserabile della monnezza romana. Che sommerge la città fra cinghiali, maiali, gatti e topi.
Per fortuna, stando almeno alle cronache, la sindaca Virginia Raggi è riuscita sinora, poco importa se per caso o con furbizia sopraffina, a proteggere una sua dimensione non politica opponendo a critici e avversari che la vorrebbero mettere nell’angolo la necessità di correre a casa, o altrove, per occuparsi del figliolo. Che ha già fatto conoscere al Consiglio Comunale mettendolo a sedere per gioco al suo posto nella riunione d’insediamento.
Una menzione in questo strano agosto la merita anche Stefano Parisi per la capacità che ha avuto di riproporre alle cronache la sede romana, che sembrava abbandonata o in chiusura, di Forza Italia. Dove egli ha diligentemente compiuto la prima ricognizione affidatagli da Silvio Berlusconi convocando e ricevendo, uno per uno, i coordinatori regionali di un partito al quale continua, sornione, a non essere iscritto.