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Tutti i subbugli tra Pera, Quagliariello e Schifani

Questo benedetto referendum costituzionale d’autunno – sulla cui strada già accidentata Matteo Renzi ha appena incontrato anche la crescita zero del secondo trimestre dell’anno e l’aumento ulteriore del debito pubblico, annunciati dall’Istat fra le deboli assicurazioni del Ministro dell’Economia che i conti sono sotto controllo – sta compromettendo anche vecchie e consolidate amicizie.

Come quella fra l’ex presidente del Senato Marcello Pera e l’ex ministro delle riforme Gaetano Quagliariello, accomunati a lungo nella prestigiosa Fondazione Magna Carta e nell’appartenenza al centrodestra berlusconiano, entrambi però delusi dall’ex presidente del Consiglio per approdare tuttavia a conclusioni diverse sulla riforma costituzionale. Che, seppure targata Renzi, ha le sue origini – ricordate da Pera in un lungo intervento su ItaliaOggi – nel lavoro svolto da Quagliariello sia nel comitato dei saggi, o esperti, costituito più di tre anni fa dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sia nel governo delle larghe e poi meno larghe intese di Enrico Letta. Di cui Quagliariello fu il ministro proprio delle riforme: il predecessore insomma di Maria Elena Boschi. Sì, proprio lei, la parte superiore delle cui gambe sta facendo impazzire, a quanto pare, fotografate dal vivo o disegnate dal vignettista, anche la redazione del Fatto Quotidiano. Dove le contestano curiosamente anche le cosce, oltre alla riforma.

L’ormai ex senatore, oltre che ex presidente del Senato, è schierato sul fronte del sì referendario, pur non apprezzando alcuni aspetti della riforma che potrebbero creare problemi nella sua applicazione, ma sempre modificabili con interventi successivi, dettati dall’esperienza e dal buon senso. Aspetti pasticciati, ma non meno di certi passaggi della Costituzione in vigore, eppure considerata ancora da qualcuno come la più bella del mondo.
Quagliariello è invece schierato sul fronte del no, dove Pera lo ha accusato di essere approdato, in pratica, solo per non essere stato confermato ministro delle riforme nel governo di Matteo Renzi.

E di non essere stato poi recuperato – anche se questo, in verità, l’ex presidente del Senato non lo ha ricordato esplicitamente – con altre funzioni quando il presidente del Consiglio in carica ha avuto occasione di farlo sostituendo, per esempio, il ministro dimissionario o dimissionato Maurizio Lupi, dello stesso partito, allora, di Quagliariello: il Nuovo Centro Destra. Quello cioè fondato dal ministro dell’Interno Angelino Alfano quando Berlusconi, per ritorsione contro la decadenza da senatore comminatagli per una condanna definitiva per frode fiscale, ritirò l’appoggio al governo di Enrico Letta e passò all’opposizione. Per cui dalla decadenza di Berlusconi dal Senato si passò ad una ulteriore decadenza del vecchio centrodestra, già colpito nel 2010 dalla rottura fra lo stesso Berlusconi e l’allora presidente della Camera Gianfranco Fini.

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Quagliariello, quindi, secondo Pera, avrebbe cambiato idea – doverosamente con la minuscola, essendo con la maiuscola il nome dato dall’ex ministro al movimentino da lui creato dopo l’uscita dal partito alfaniano- solo per una questione di potere, o di ambizione. Il che per un filosofo, quale Pera è con tanto di laurea e d’insegnamento universitario, non è naturalmente una cosa molto buona, o comunque apprezzabile. Cosi come non sarebbe apprezzabile per Pera il cambiamento di campo effettuato, sempre sul terreno della riforma costituzionale, dal suo successore alla presidenza del Senato Renato Schifani, appena tornato da Berlusconi per partecipare –si deve presumere- alla campagna del no referendario dopo avere contribuito all’approvazione della riforma costituzionale come capogruppo, sempre al Senato, dei parlamentari di Alfano, e anche dell’Udc che Lorenzo Cesa ha ereditato da Pier Ferdinando Casini.

Si, lo so bene, è sempre complicato raccontare queste vicende di migrazione politica, di scomposizione e ricomposizione di partiti o di loro schegge, ma questa purtroppo è la storia a dir poco sfortunata dei centristi o moderati italiani. Che si possono consolare solo constatando che a scomporsi continuamente sono anche la sinistra e la destra.

A Schifani, in verità, Pera ha dedicato solo una breve, quasi istantanea citazione un po’ forse perché i loro rapporti non sono mai stati eccellenti e un po’ perché, obiettivamente, tornando in Forza Italia, accolto poco prima dell’annuncio da Berlusconi a braccia aperte in un incontro ad Arcore, Schifani ci ha per ora soltanto rimesso. Egli è rientrato nei ranghi di semplice senatore.

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A Quagliariello, e a quanti altri nell’area di centro e di destra, hanno scelto il fronte referendario del no Pera ha rimproverato anche un errore di visione politica. Sulla cui descrizione è francamente difficile dargli torto perché in effetti, se il no dovesse veramente vincere nel referendum di fine novembre e Renzi fosse costretto per ragioni quanto meno di faccia, dopo quello che ha detto, a dimettersi da presidente del Consiglio, a trarne i maggiori benefici politici sarebbero più i dissidenti di sinistra del Pd e i loro referenti esterni che il vecchio o il nuovo centrodestra. Ci guadagnerebbe, come ha scritto Pera facendo qualche nome, più lo storico berlusconiano Miguel Gotor che lo storico post-radicale Quagliariello, più il politico Massimo D’Alema, pur rottamato come parlamentare, che il capogruppo forzista della Camera Renato Brunetta.

Non poteva naturalmente sfuggire al vaglio critico di Pera neppure Stefano Parisi con la sua proposta alternativa alla riforma di Renzi: la sostituzione del Senato con un’Assemblea Costituente, da eleggere già nella primavera dell’anno prossimo.

Pera ha chiesto giustamente, secondo me, se è realistico pensare che un Senato appena scampato con la vittoria del no referendario alla sua trasformazione in una mini-assemblea di consiglieri regionali e sindaci, con l’anacronistica sopravvivenza degli attuali senatori a vita, o di altri cinque nominati via via dai presidenti della Repubblica per la durata dei loro mandati settennali; un Senato, dicevo, appena scampato alla sua fine rivoti in quattro e quattr’otto la propria soppressione, sia pure per far posto ad un’Assemblea Costituente. Beh, in effetti è una cosa difficile da immaginare.


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