Stipendi alti, consulenze, curricula “pettinati”. E, a seguire, l’indignazione che questa volta, come in un gioco a ruoli invertiti, viene da sinistra, dal PD, con i grillini intenti, come il principe di Salina, a troncare e a sopire.
A poche settimane dal suo insediamento, la giunta Raggi fa discutere, non per il suo programma o per la sua azione, ma per emolumenti e gettoni. Ha un senso tutto questo, da un punto di vista politico? E non è forse preoccupante che il maggiore partito italiano scenda sul terreno dei grillini, quello francamente antipolitico di una astratta “lotta alla casta” e ai suoi privilegi? Domande legittime ma che non distinguono, a mio avviso, questioni diverse.
Una mancata distinzione che è propria anche di questo dibattito agostano. Detto altrimenti: è giusto stare col fiato addosso alla “giunta Raggi” e metterne in luce le contraddizioni, perché questo è il ruolo dell’opposizione, ma ciò dovrebbe avere un valore politico e non essere intriso, come purtroppo è ora anche da parte del PD, da quel moralismo astratto che da anni corrode la nostra vita pubblica.
Seguire i grillini su questo terreno, strizzare l’occhio ad una opinione pubblica indignata a prescindere, sinceramente non si addice a un partito che vuole essere responsabile e di governo. Mi spiego ulteriormente.
In democrazia chi è all’opposizione, fosse anche solo come in questo caso di una giunta comunale, ha il compito di “controllare” chi governa, quindi di portare alla luce quello che altrimenti rimarrebbe occulto o non facilmente visibile: con tutti i limiti di una affermazione apodittica, si può concordare con Norberto Bobbio che definiva la democrazia “governo in pubblico”. Il cittadino-elettore ha perciò anche il diritto di conoscere gli stipendi degli amministratori, ma non certo per indignarsene e fare moralismo a buon mercato.
Ne ha diritto sostanzialmente per due motivi: perché in ultima analisi quei soldi sono suoi, delle sue tasse; e perché conoscere gli stipendi dei politici è importante per esprimere un voto quanto più possibile consapevole. Se fatta con questo spirito, cioè in definitiva per dare elementi di valutazione all’elettore, l’operazione trasparenza non può che essere benedetta. Se fatta invece con lo spirito di una gara a chi è più moralizzatore, essa deve essere invece assolutamente criticata.
Ma cosa deve, in concreto, valutare l’elettore? Da una parte, direi, la corrispondenza fra la realtà dell’azione e le promesse elettorali, fossero pur esse non condivisibili nel contenuto come per noi in questo caso; dall’altro, e soprattutto, la corrispondenza fra stipendi e performances amministrative. Detto altrimenti, se un assessore riuscisse a mettere in campo le strategie giuste per risolvere i problemi atavici della mia città, o meglio per liberare quelle forze sane che quei problemi possono risolvere, riterrei perfettamente giusto che egli prenda uno stipendio alto e che, eventualmente, chieda pure un aumento.
Il problema italiano non sono gli alti stipendi, ma il fatto che essi non si legano alle competenze e alle prestazioni specifiche bensì alla fedeltà politica. In molti, anzi in troppi, guadagnano cifre astronomiche, fanno male il loro lavoro e casomai vengono pure premiati con incarichi sempre più prestigiosi solo perché fanno parte di una cordata vincente. E questa è veramente una “vergogna” nazionale.
In sostanza, quello che qui si vuole sottolineare è, da una parte, il rapporto non sano che la nostra cultura pubblica ha con il denaro; dall’altra, il fatto che in politica ciò che conta è solo la capacità di realizzare obiettivi. Su questo e solo su questo, non sull’astratta “onestà”, dovremmo aspettare la giunta Raggi al varco.