Il generale Ferragosto si è dunque presa una perfida rivincita sull’altrettanto perfida ironia di chi lo avevo accusato di avere censurato una buona notizia, utile a fare un dispetto al giustizialismo dei senatori grillini e amici. Che, in partenza per le ferie, e con l’aiutino del presidente Pietro Grasso, avevano voluto autorizzare il 4 agosto l’arresto del collega di palazzo Antonio Stefano Caridi, vice coordinatore diForza Italia in Calabria, anche se non iscritto all’omonimo gruppo parlamentare per uno dei tanti paradossi e pasticci che contraddistinguono l’area una volta nota come centrodestra.
Dopo un’udienza fiume il tribunale del riesame di Reggio Calabria ha invece respinto il ricorso di Caridi, ed altri imputati non parlamentari, contro l’ordinanza di arresto “cautelare” nel frattempo eseguita per il reato di associazione mafiosa.
Sembra che a giocare contro Caridi, e a favore dell’accusa, abbiano contribuito recenti deposizioni di Alberto Serra, ex esponente di Alleanza Nazionale, alla competente Procura della Repubblica, sollevata così dallo scomodo riferimento solo a troppo datate rivelazioni di un pentito, risalenti addirittura ad una quindicina d’anni fa.
Resta naturalmente da capire, al di là delle giaculatorie sulla divisione e sull’autonomia dei poteri, se e in che misura abbia giocato contro Caridi in sede giudiziaria la decisione politica dal Senato di autorizzarne l’arresto prima dell’ormai imminente pronunciamento del tribunale del riesame. Sarà una questione di lana caprina, come probabilmente sosterranno i soliti manettari, ma resto personalmente convinto che il Parlamento ci avrebbe guadagnato da un’attesa delle decisioni della magistratura ordinaria. Non sarebbe cascato il mondo se il senatore Caridi fosse finito in carcere fra meno ormai di un mese, alla ripresa dei lavori parlamentari. A meno che qualcuno non sia in grado di dimostrare ch’egli fosse in procinto di fuggire all’estero.
In tal caso sarei pronto a cospargermi il capo di cenere, fuori stagione liturgica, e addirittura a complimentarmi con la preveggenza del magistrato di lunghissimo corso Pietro Grasso. La cui improvvisa decisione di invertire l’ordine del giorno della seduta del 4 agosto costò a Caridi le ferie al fresco dei monti o del mare, come gridavano i grillini reclamando invece il fresco metaforico del carcere. Dove notoriamente si soffre il caldo d’estate e il freddo d’inverno.
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Al fresco questa volta, e per fortuna, del mare dell’alto Lazio, a prudente distanza dalla toscana Capalbio, tornata in questi giorni sulle prime pagine per le pulsioni leghiste dei vacanzieri di lusso della sinistra, insorti contro l’arrivo di una cinquantina di profughi siriani, l’instancabile Stefano Parisi ha continuato a distribuire le pillole della sua proposta alternativa alla riforma costituzionale di Renzi. Che è notoriamente l’elezione, al posto del Senato, di un’Assemblea Costituente del tipo di quella creata col referendum istituzionale del 1946, destinata a produrre anch’essa in diciotto mesi una nuova Costituzione.
Di questa Assemblea- ha precisato l’incaricato da Silvio Berlusconi di riorganizzargli Forza Italia e al tempo stesso di tentare una ricostituzione del centrodestra- dovranno fare parte, eletti col sistema proporzionale, esponenti che non potranno poi candidarsi ad alcun’altra assemblea parlamentare, in modo da non poter essere sospettati di lavorare per sé, cioè di produrre un progetto di Costituzione speculare alle loro ambizioni personali. Un progetto che non si è ancora ben capito se destinato poi ad una verifica referendaria.
Consapevole forse dei tempi troppo stretti perché la sua Assemblea Costituente possa essere eletta già nella primavera prossima, come ha scritto prima di Ferragosto al quotidiano La Repubblica, Parisi ha detto che la proposta di abolizione del Senato per far posto a quest’organismo straordinario potrà cominciare il suo percorso prima ancora del referendum previsto per la fine di novembre sulla riforma costituzionale di Renzi.
Riesce francamente difficile immaginare come possa avviarsi il percorso legislativo dell’abolizione del Senato prima ancora di sapere la fine riservatagli dagli elettori col referendum confermativo della riforma targata Renzi.
Il progetto alternativo di Parisi, pur dettato dal nobile tentativo di distinguersi dal no puro e semplice alla riforma di Renzi, rimane un po’ troppo appeso per aria, sulle nuvole: “una pecetta”, l’ha giudicata in un’intervista al Foglio l’ex ministro Giuliano Urbani, tra i fondatori della prima Forza Italia, già plenipotenziario di Berlusconi nella commissione bicamerale per la riforma costituzionale presieduta una ventina d’anni fa da Massimo D’Alema.
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Secondo Urbani, deciso come Marcello Pera, altro ex forzista illustre, a votare sì nel referendum previsto a fine novembre, il no di Berlusconi alla riforma di Renzi sarebbe quello dell’uomo “offeso” per lo sgarbo riservatogli dal presidente del Consiglio con l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, senza concordare con lui il successore di Giorgio Napolitano. Un no quindi di ripicca o di tigna, simile a quello opposto dalla sinistra alla riforma costituzionale varata una decina d’anni fa dal centrodestra, e bocciata nel referendum confermativo dopo una campagna elettorale guidata dall’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
Deriverebbe anche dal dovere di non scimmiottare la sinistra la decisione di Urbani di votare sì, riconoscendo che la riforma sotto procedura referendaria si muove nella stessa direzione di quella tentata dal centrodestra. Che pertanto dovrebbe vantarsene, e non mescolarsi al no della sinistra interna ed esterna al Pd e dei grillini. Per non parlare degli effetti politicamente destabilizzanti della bocciatura della riforma targata Renzi avvertiti nei giorni scorsi dalla stampa internazionale.
Contro le preoccupazioni del Wall Street Journal, New York Times e Financial Times per ciò che potrebbe accadere in Italia con una crisi di governo prodotta dalla vittoria del no nel referendum costituzionale d’autunno ha speso il suo abituale sarcasmo sul Fatto Quotidiano il direttore Marco Travaglio. Convinto forse che le sue critiche, in verità più all’eco ottenuta in Italia che agli articoli dai tre giornali stranieri, possano indurre questi ultimi a un ripensamento, o al disinteresse per gli avvenimenti di casa nostra.