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Che cosa sta combinando Haftar in Libia

L’IS è stato un calmante, che attirandosi addosso i riflettori internazionali ha messo in secondo piano i problemi veri della Libia, che ora tornano tutti a galla mentre i baghdadisti si sfaldano sotto l’avanzata delle milizie fedeli al governo di Tripoli e alle bombe sganciate dagli aerei americani: la mancanza di liquidità, il bilancio che va a rotoli, i black out elettrici continui e prolungati, la chiusura degli ospedali; ma anche la situazione del fondo sovrano, della società petrolifera e della Banca centrale, le istituzioni che dovrebbero essere ancore di speranza per i cittadini e che invece sono terreno di scontro per la spaccatura interna.

Nonostante il premier progettato dal processo di pace veicolato dalle Nazioni Unite, Fayez Serraj, sia in Libia da mesi, il suo è un potere relativo: gode della credibilità e del quasi completo appoggio diplomatico (eccezion fatta per Russia e Egitto e pochi altri), ma in Libia non riesce a governare su un’ampia fetta orientale del paese, la Cirenaica, da dove però, secondo quel progetto Onu che si chiama Libyan Political Agreement (Lpa), dovrebbe arrivare il voto definitivo che avalla la sua legittimità di governo. Ma dall’Est arrivano soltanto spostamenti secondo un’agenda regionalizzata (guidata in parte dal Cairo). I militari, che rispondono agli ordini dal braccio armato del problema orientale, Khalifa Haftar, non combattono a Sirte, ma cercano di liberare Bengasi (e Derna), su cui nutrono interessi diretti e che reputano il punto di inizio di una campagna che potrebbe ampliarsi verso le aree petrolifere; la politica, guidata da Agila Saleh, il presidente dell’HoR, il parlamento esiliato a Tobruk che ha ancora la legittimità del voto popolare ricevuta due anni fa (e che per l’Lpa è strumento di passaggio necessario per dare funzione piena a Serraj), boicotta ogni genere di assise, pur di rimandare quel voto che permetterebbe a Tripoli di formare un governo definitivo. Sulle intenzioni future di lasciare il potere: l’HoR si è spostato verso un nuovo edificio.

IL “MAL DI TESTA” LIBICO

Missy Ryan, in un articolo che il Washington Post, titola “Un ex agente della Cia è diventato un mal di testa per gli Stati Uniti in Libia”, scrive che americani e alleati “non riescono a capire cosa fare con Haftar”; il riferimento alla Cia è dovuto alla lunga residenza statunitense del generale, durante la quale ha collaborato con la Central intelligence come persona informata sui fatti libici, perseguitato dal regime dopo una specie di ammutinamento/ripudio in Ciad, e certificato anti-islamista (erano gli anni in cui Washington dava la caccia ai terroristi legati al rais Gheddafi). Con gli uomini dello Stato islamico sconfitti a Sirte, il principale ostacolo all’attuale progetto di pace e democrazia in Libia (sogno in ballo dal 2011, quando fu lo stesso generale a dare un contributo nel rovesciare il regime, per poi tornare in Virginia per “godersi i nipoti” come confessò al New Yorker) sembra essere proprio Heftar, che combatte secondo una propria agenda in Cirenaica, da dove nel 2014 annunciò una specie sghemba di colpo di stato, e ora si fa braccio armato degli interessi dell’Est del paese (sponsorizzati dall’Egitto dei Generali): l’Est che dopo il mancato golpe per cui fu deriso ha ceduto al suo fascino militaresco e l’ha messo a capo delle forze militari. “Anche se ci fosse stata unità di pensiero all’interno del governo degli Stati Uniti, non abbiamo avuto la capacità di marginalizzarlo e non siamo stati in grado di integrarlo”, ha detto un anonimo funzionario al WaPo: “È un elettrone libero”. Al suo fianco si sono schierati uomini dei reparti speciali francesi, che hanno link con gli egiziani, ma anche americani e probabilmente italiani, impegnati in missioni a cavallo tra l’intelligence e l’advising militare, perché quello che Haftar sta facendo in Cirenaica non può essere lasciato scoperto; “Il sostegno regionale è un fattore chiave” ha commentato Frederic Wehrey, un esperto di Libia del Carnegie Endowment for International Peace.

LA GUERRA PER IL PETROLIO

La scorsa settimana l’inviato delle Nazioni Unite Martin Kobler, l’uomo che più di ogni altro ha esposto il suo volto perché la Comunità internazionale sostenesse Serraj, ha ammesso in un’intervista con lo svizzero Neue Zuercher Zeitung che il supporto per il governo di unità (Gna) “sta scivolando via”, e questo può significare il riaprirsi di un contenzioso militare interno, che potrebbe anche tornare a favorire i gruppi jihadisti, i quali secondo le ricostruzioni del Wall Street Journal stanno cercando di raggrupparsi al sud per potersi riorganizzare clandestinamente, coprendo gli spostamenti con ondate di azioni suicide. È stato proprio il generale Haftar a dare un altro segnale su questa possibile deriva interna, annunciando che le sue milizie, che il generale freelance chiama in modo temerario Libyan National Army (Lna), si impegneranno a mettere in sicurezza i campi petroliferi. Il rischio è enorme, mentre il governo di Tripoli sta cercando di rimettere in piedi il commercio di greggio, che rappresenta il principale asset economico del paese in forte crisi: se i miliziani cirenaici guidati da Haftar dovessero trovarsi in zone in cui sono presenti milizie orientali, ossia quelle di tripoline o misuratine che sostengono Serraj, o quelle della milizia petrolifera Pfg, lo scontro armato potrebbe essere inevitabile, visto che questi gruppi si detestano tanto più è ampia la distanza longitudinale che li separa. Tutto è nato dopo che il 31 luglio il Consiglio presidenziale guidato da Serraj aveva annunciato l’intenzione di riaprire i porti di Zueitina, Es Sider e Ras Lanuf (chiusi da gennaio per ragioni di sicurezza: erano stati oggetto di attacchi dell’IS), siglando un accordo di protezione con le controverse Pfg di Ibrahim Jadrhan; Jadrhan un tempo era alleato di Haftar, e per questo è odiatissimo in Cirenaica. I vertici della Noc, la compagnia petrolifera, che pure hanno storto il naso per la presenza di Jadhran, avevano parlato di un piano ambizioso: triplicare le produzioni annue, ferme da tre anni intorno ai 300 mila barili giornalieri. La Cirenaica però rivendica l’operatività di una struttura (illegittima) parallela, la cosiddetta Noc-Bengasi, che avrebbe diritti sui pozzi (i quali si trovano quasi tutti nella fascia centro-orientale del paese) e considera le milizie Pfg “forze fuorilegge” e dunque vorrebbe vietare l’ingresso delle navi da esportazione per i carichi ai porti; con il virgolettato si cita Abdulrazak al Nazhuri, capo di stato maggiore di Haftar, che è stato intervistato dalla Reuters. I governi di Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti hanno diffuso, giorni fa, un comunicato congiunto con cui appoggiano la decisione di Serraj, scomunicano ogni iniziativa non centralizzata (ossia, delegittimano la Noc-Bengasi) e si dicono “preoccupati” per la situazione di Zuetina, che è il porto più vicino a Bengasi e dove un brigata dell’Lna è penetrata fino a fronteggiare il blocco delle Pfg al porto.

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