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Tutte le questioni giuridiche dietro il burkini

Per i non addetti ai lavori il significato del messaggio che il premier francese Valls ha voluto scandire a chiare lettere sulla questione del divieto di indossare il burkini nelle spiagge pubbliche potrebbe risultare non accessibile in tutte le sue articolazioni.

Il capo del Governo transalpino, infatti, ha affermato che il costume da bagno che nasconde l’intero corpo delle signore è contrario ai valori della Francia perché rappresenterebbe “la traduzione di un progetto politico, di contro-società, fondato sull’asservimento della donna”. Ha aggiunto il primo ministro francese che il divieto di indossare questo singolare abbigliamento balneare non necessiterebbe del supporto di una legge statale poiché sufficienti risulterebbero sul piano legale le ordinanze emesse dai sindaci nei singoli comuni della Repubblica d’oltralpe.

È noto a pochi però che le affermazioni di Valls riecheggiano pressoché alla lettera gli insegnamenti della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo in materia di legittimità del divieto di indossare il velo islamico e che esse rappresentano probabilmente l’anticipazione delle argomentazioni giuridiche a difesa del divieto di portare il burkini che la Repubblica francese potrà far valere in ogni sede di confronto pubblico e giudiziario, dentro e fuori i confini nazionali.

In almeno due occasioni (caso Dahlab v. Svizzera, App. no.42393/98 e Leyla Azahin v. Turchia, App. no.44774/98) la Corte europea dei diritti dell’uomo infatti ha già ritenuto legittimo il divieto di indossare il velo islamico in luoghi pubblici in virtù del principio di laicità delle istituzioni democratiche e della necessità di assicurare l’ordine pubblico e la pace sociale.

La Corte di Strasburgo ha affermato in entrambe le occasioni che il velo rappresenta un simbolo religioso difficilmente conciliabile con un messaggio di tolleranza, rispetto dei diritti altrui, eguaglianza e non discriminazione e che per tale ragione il divieto di indossarlo, in determinate circostanze, rappresenterebbe in una società democratica una misura proporzionata ed adeguata alla tutela della sicurezza pubblica, dell’ordine, della morale, dei diritti e delle libertà altrui.

Nello specifico la Corte Europea ha sempre affermato che occorre assegnare adeguato rilievo sia alla specialità dei contesti sociali all’interno dei quali il velo islamico rischierebbe di rappresentare un simbolo religioso di sottomissione obbligatoria della donna e di discriminazione sessuale, sia alle congiunture storiche durante le quali il copricapo assumerebbe i connotati di una volontà di contrapposizione radicale agli ordinamenti liberal democratici.

Quanto alla necessità che il divieto di indossare il velo sia adottato per mezzo di una deliberazione parlamentare espressione della c.d. “volonté générale”, da Strasburgo sostengono da tempo che la nozione di legge deve essere considerata in senso sostanziale e non già formalisticamente intesa, cosicché è sufficiente che l’ordine ed il divieto legalmente imposti siano chiari, facilmente conoscibili e non dotati di alcun effetto retroattivo.

Alla luce della ricognizione della giurisprudenza europea le parole di Valls dovrebbero dunque assumere un significato più compiuto e rivelare la consapevolezza del Governo francese di potere a buon diritto proseguire con determinazione (e senza coinvolgere il Parlamento) un percorso di contenimento delle facoltà di espressione della libertà religiosa e di manifestazione del pensiero di matrici islamica che ha sollevato tuttavia non poche osservazioni e rilievi critici.

In particolare, merita attenzione l’osservazione di quanti sottolineano la convinzione del Governo francese e della Corte Europea di potere imporre limitazioni alla libertà religiosa (oltre che al diritto all’identità personale alla cui definizione contribuisce evidentemente l’abbigliamento che si sceglie di indossare) non già in presenza di condotte che arrecano offese a beni, diritti e libertà altrui, ma in ragione dell’impossibilità di riconoscere cittadinanza all’interno dei nostri ordinamenti democratici al significato religioso e politico che emanerebbe dal velo islamico (e adesso dal burkini). Il valore simbolico ed il significato che l’abbigliamento racchiuderebbe in sé, unitamente allo spettro dei riferimenti culturali cui rimanderebbe, (l’uno e l’’altro estrapolati per interpretazione unilaterale di soggetti appartenenti a tutt’altro mondo) rappresenterebbero per ciò solo ragioni sufficienti a giustificare le limitazioni alle quali si è fin qui fatto cenno.

L’esegesi dei simboli religiosi per mano di Tribunali e autorità amministrative rischia, però, di confondersi e di mescolarsi con l’interpretazione dei principi e delle norme giuridiche; ad essa pare sovrapporsi e sostituirsi.
D’altronde anche il Consiglio di Stato italiano nel 2006 ha interpretato il significato del crocifisso ritenendo che esso “anche per i non credenti, esprime in forma sintetica valori civilmente rilevanti, posti a fondamento del nostro ordinamento (tolleranza, rispetto dei diritti e delle libertà della persona, solidarietà, non discriminazione).”, cosicché si è dedotta la piena armonia della sua esposizione nei luoghi pubblici con la tutela e la promozione del pluralismo culturale e religioso.

La giurisprudenza della Corte europea in materia di esposizione del velo islamico e del crocifisso nei luoghi pubblici, la condotta che le autorità francesi hanno intrapreso con il vietare il burkini nelle spiagge e le pronunce di altre corti nazionali sui simboli religiosi, testimoniano concordemente della profonda convinzione dell’elite occidentale dell’incompatibilità radicale fra la cultura liberal democratica che vive all’interno dei nostri paesi ed alcune delle manifestazioni essenziali della religione islamica che, a dispetto della loro semplicità e innocuità materiale, sono spesso avvertite come seri pericoli ai valori fondanti la nostra civiltà.

La ricostruzione dei significati che conduce al predetto giudizio di incompatibilità è probabilmente veritiera sul piano dei sistemi culturali di riferimento unitariamente intesi (quello occidentale giudaico cristiano e quello islamico o islamico radicalizzato), ma trascura l’indispensabile valorizzazione delle individualità, delle condotte da queste poste concretamente in essere e della volontà che dalle stesse è lecito desumere, oltre che l’imperativo categorico per la civiltà liberale di sanzionare esclusivamente comportamenti individuali che pongono quanto meno in pericolo beni e diritti altrui.

L’imposizione di limitazioni delle libertà fondamentali in ragione del presunto e non sempre accertato carattere religioso di condotte individuali, non esaminate singolarmente nella loro concreta pericolosità, non può che spalancare le porte, anche dal lato della cultura occidentale, ad uno scontro di civiltà e ad una guerra di religione che appaiono, nonostante tutto, già in atto.



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