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Tutte le ultime tensioni in Libia fra Tripoli e Tobruk

Fayez Serraj, Libia, trenta

Lunedì scorso il parlamento di Tobruk in una delle rare sessioni tenute negli ultimi mesi ha votato una mozione di sfiducia al governo di accordo nazionale (Gna) di Fayez Serraj, l’uomo che secondo un’intesa raggiunta a dicembre scorso (Liyban Political Agreement, Lpa) sotto egida delle Nazioni Unite ha l’onere di guidare la Libia da Tripoli; anche se da qualche giorno Serraj e il suo staff sono nuovamente tornati a Tunisi, ufficialmente per incontri diplomatici, ma pesa anche una questione di sicurezza. Mina il percorso dell’esecutivo il duro colpo sferrato dall’HoR, così si chiama il parlamento auto-esiliatosi nella città della Cirenaica, dove HoR sta per House of Representatives, ossia l’ultima assise eletta da votazioni popolari e per questo ancora in carica e insignita dallo stesso processo veicolato dall’Onu di dare l’avallo definitivo, la fiducia politica, all’uomo di Tripoli. Inutile aggiungere che il voto di due giorni fa va esattamente nella direzione opposta, mentre la fiducia è attesa da marzo, quando Serraj approdò via nave in Libia e iniziò a dirigere quello che gli altri definivano un governo (“gli altri” perché le fonti libiche e i libici, molto più che certi politici occidentali, parlano da tempo molto chiaramente del vuoto di potere).

“So di godere della loro maggioranza”, aveva detto Serraj in un’intervista al Corriere della Sera, rivelando un noi e un loro di pessimo auspicio. La Libia è oggi come un anno fa divisa in due tronconi, ad ovest fino a questo momento si trova il governo filo-Onu, che gode della legittimazione internazionale anche se ancora il processo di insediamento è monco; a est c’è un blocco politico regionale capitanato dal presidente dell’HoR Agila Saleh che si oppone al governo di Tripoli, guidato dal generale freelance Khalifa Haftar combatte secondo un’agenda personale a Bengasi e Derna contro milizie islamiste di cui alcune hanno collegamenti politico-ideologici con fazioni tripoline, si muove seguendo gli interessi geostrategici dell’Egitto (e degli Emirati Arabi, quanto meno, anche se l’occhio sulla fascia orientale libica l’hanno allungato in tanto, europei compresi).

Rispetto alle parole dette al Corsera la situazione ha assunto una china paradossale: dovevano esserci almeno un centinaio di consensi sul governo Serraj tra i rappresentanti di Tobruk, ma lunedì si sono riuniti in 102 su 182, e siccome il quorum minimo previsto dalla Costituzione libica è 98, stando ai risultati della votazione (61 contrari e 39 astenuti) ora viene rivendicata la legittimità del voto e chiesta la destituzione del wannabe-premier, i cui sostenitori tra i Rappresentanti non erano presenti al voto. La batosta non riguarda solo Serraj, ma l’intera impalcatura dell’Lpa, e dunque in primis le volontà di rappacificazione espresse sotto la benedizione dell’Onu e gli auspici di molte cancellerie occidentali, Italia in testa, che vedevano nella stabilizzazione politica promessa dal premier-Onu la soluzione anche al grosso problema dei migranti che seguono la rotta mediterranea-nordafricana, sfruttando le falle e le concussioni della sicurezza libica.

Nel frattempo le forze misuratine continuano a combattere contro lo Stato islamico, che pare ormai un problema secondario rispetto allo scompenso politico. Nota: lo è solo in parte, perché molti dei baghdadisti sono fuggiti dalla capitale Sirte giurando vendetta (le informazioni migliori parlano che sarebbe nei pressi di Bani Walid la zona di rifugio clandestino) e sono tutt’altro che distrutti dalla campagna militare lanciata contro di loro (cellule e incrostazioni sarebbero anche a Bengasi, nell’est), ma anche perché nonostante il supporto aereo americano i libici a terra non riescono ad andare avanti, e continuano a perdere soldati (Sirte tuttavia alla fine verrà liberata, ma lo Stato islamico resterà attivo in Libia, anche se senza la dimensione statuale della sua organizzazione); gli aggiornamenti parlano di 400 morti, dopo che negli ultimi giorni diverse trappole esplosive hanno decimato i misuratine fedeli a Serraj.

Anche quest’ultima espressione è degna di nota: la Libia sta tornando a essere il terreno delle milizie. A Tripoli quelle fedeli al vecchio governo islamista sono tornate a sparare durante lo scorso fine settimana nell’area dell’aeroporto Mitiga (vicenda da collegare quando si cerca alla voce sicurezza sulla presenza a Tunisi dell’eventuale prossimo esecutivo). Serraj anche ha dovuto rincorrere questi gruppi di potere armati, e la stessa campagna militare contro lo Stato islamico ne è testimonianza, perché se non fosse stato per la volontà (e le spinte esterne italiane, americane e inglesi) le milizia della potente città/stato di Misurata non avrebbero fatto il sacrificio di sangue a sostegno di Serraj. Ora la sfiducia a Serraj rischia di far tornare tutto al punto di partenza, di riaprire il conflitto intra-libico (di cui ci sono già avvisaglia sul terreno caldo dei pozzi petroliferi) e di favorire con l’aumento del caos un nuovo attecchimento di istanza radicali.

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