Matteo Salvini non ha voluto dunque sentire ragioni. Non gli hanno fatto cambiare idea i due governatori leghisti del nord: Roberto Maroni in Lombardia e Luca Zaia in Veneto, convinti che l’ex governatore piddino dell’Emilia-Romagna, Vasco Errani, abbia tutti i requisiti per meritarsi la nomina a commissario per la ricostruzione nel Centro Italia terremotato.
Il segretario della Lega, invece, rimane tanto convinto che la scelta fatta preannunciare da Matteo Renzi sia sbagliata, attribuendo ad Errani i ritardi presunti della ricostruzione nella sua regione dopo il terremoto del 2012, da proporre al presidente del Consiglio un’alternativa: il ricorso all’ex prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca, reduce dall’esperienza capitolina di commissario, fra la rovinosa e goffa caduta di Ignazio Marino e l’elezione quasi trionfale della grillina Virginia Raggi a sindaco di Roma.
Una volta i prefetti non erano di moda fra i leghisti, che ai tempi originari di Umberto Bossi, prima che questi imparasse a conoscerli meglio stando al governo, ne volevano la soppressione. I gusti evidentemente sono cambiati da quelle parti. E’ un’altra delle svolte salviniane.
Tanto per ripetere lo schema di altre partite politiche, dall’interno di Forza Italia si è subito creato un gioco di sponda fra i “duri” e il segretario della Lega. L’argomento dei “duri”, alla Brunetta, Gasparri, Santanchè e via muscolando, è che la nomina di Errani altro non sia che un passaggio dell’eterno “congresso” in corso del Pd. Dove Renzi avrebbe deciso, con la nomina dell’ex governatore emiliano, di tentare un’ulteriore spaccatura o riduzione delle già malmesse minoranze di sinistra, essendo notoriamente Errani un compagno di corrente, o di area dell’ex segretario del partito Pier Luigi Bersani. Che starebbe facendo, col riconoscimento delle qualità del suo amico, buon viso a cattivo gioco.
Di questa nomina, sempre secondo i “duri” di Forza Italia, Renzi vorrebbe giovarsi per una “pacificazione” nel Pd funzionale alla campagna referendaria d’autunno sulla riforma costituzionale, nonostante o proprio a causa dell’incaponimento di Massimo D’Alema. Che ha appena convocato a Roma per il 5 settembre i suoi compagni, amici, estimatori e quant’altri raccogliendo –dicono- tante adesioni per dire no a quella riforma da essere costretto in questi giorni a cercare un locale più grande di quello indicato negli inviti.
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Ora l’irriducibile D’Alema rischia di diventare più pericoloso di prima agli occhi del pur spavaldo Renzi, che ne liquida gli attacchi come una polizza assicurativa a proprio vantaggio, perché è appena giunta dalla Spagna la notizia di un volo del Pil, inteso come prodotto interno lordo, nonostante la lunga assenza di un governo provvisto di una maggioranza. Una notizia che, sommata a quella della crescita in Belgio nel 2010 nonostante i 545 giorni interrotti di crisi di governo, potrebbe fare comodo all’ex presidente del Consiglio per sdrammatizzare l’eventuale caduta di Renzi in caso di sconfitta referendaria.
Non un vuoto pericoloso di potere, con il solito scatenamento delle speculazioni di borsa contro i titoli di Stato italiano, ma addirittura la famosa e tanto invocata ripresa potrebbe quindi derivare dalla crisi del governo in carica.
Il bello è che a fornire queste notizie tentatrici a D’Alema sia stato, con tanto di richiamo in prima pagina, un giornale – la Repubblica – che il presidente del Consiglio con l’arrivo di Mario Calabresi alla direzione è riuscito a spaccare sul referendum costituzionale fra quanti sono pronti a votare sì e quanti, come il fondatore Eugenio Scalfari e l’editore Carlo De Benedetti, hanno posto come condizione per il loro voto favorevole un credibile e concreto impegno preventivo di Renzi a cambiare la legge elettorale della Camera, nota come Italicum. Un impegno invece che il presidente del Consiglio, per quanto pressato anche da qualche ministro, per esempio Dario Franceschini e Andrea Orlando, ha sinora esitato a prendere preferendo aspettare la Corte Costituzionale. Che in ottobre potrebbe togliergli le castagne dal fuoco bocciando qualche parte dell’Italicum approdato al Palazzo della Consulta per iniziativa della magistratura.
A quel punto un intervento su una legge elettorale tanto fortemente voluta dal presidente del Consiglio da farla approvare dal Parlamento col ricorso al voto di fiducia, non sarebbe più una scelta o un passo indietro del governo ma un passaggio istituzionale obbligato.
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L’allineamento dei “duri” di Forza Italia all’antierranismo –chiamiamolo così- del segretario leghista, per quanto con motivazione diversa, più per le vicende interne al Pd che per le qualità tecniche e umane dell’ex governatore emiliano, ha la sfortuna d’incrociarsi, ed anche di confondersi, con un’altra campagna contro Errani. E’ quella di stampo giustizialista, al solito, condotta sul Fatto Quotidiano dal direttore Marco Travaglio: uno stampo da cui, “duri” o non duri, i dirigenti del partito di Berlusconi dovrebbero tenersi alla larga per coerenza, e un po’ anche per decenza.
In particolare, Travaglio ha contestato a Renzi l’opportunità di nominare un compagno di partito che da governatore dell’Emilia procurò all’azienda enologica di un fratello un finanziamento regionale.
A chi ha replicato ricordando che da quella vicenda giudiziaria Errani, dimessosi nel 2014 per scrupolo alla prima condanna, è uscito assolto in modo definitivo qualche mese fa, l’ostinatissimo Travaglio ha ricordato che il processo subìto dall’ex governatore ha riguardato non il finanziamento in sé, che rimarrebbe inopportuno, ma l’autenticità della documentazione portata a sua difesa da Errani. La cui colpa, pertanto, sarebbe quella di essere comunque entrato nella vicenda giudiziaria, sia pure per un capo d’accusa diverso, falso ideologico, essendo alla fine assolto con la faccia ugualmente compromessa. Più importante, insomma, di come se ne esce è come si entra in una vicenda giudiziaria. Francamente, non ho parole.