Ho trovato interessante l’analisi del M5S sviluppata su queste colonne dal prof. Benedetto Ippolito: “Il M5S non è un movimento conservatore, quindi non appartiene alla destra popolare e nazionale, e non è certo progressista perché manca di quella cultura razionalista e illuminista della governance istituzionale che anima sia il riformismo di Renzi e sia il massimalismo classico della minoranza di sinistra del Pd. A mio avviso si tratta di una lettura di destra radicale della visione attivistica della volontà generale di Rousseau, una visione interessante ed originale confermata ed espressa da una negazione plastica e risoluta verso tutto e tutti, nonché dalle continue auto epurazioni e da un certo culto del capo, tanto presente quanto avvolto nel mistero imponderabile”.
Poiché concordo in larga misura con questa tesi, mi sia consentita solo qualche nota a margine.
Come ha osservato Piergiorgio Corbetta (“Il partito di Grillo”, il Mulino, 2013), il Movimento 5 Stelle è l’animale più strano che si aggira nello zoo della politica italiana. Dovrebbe essere chiamato “partito”, poiché si presenta alle elezioni e chiede che i propri candidati vengano eletti, ma si definisce “un non-partito”. Ha un “non-statuto”, si dichiara “non-associazione” e come sede ha un indirizzo web. Palmiro Togliatti oltre mezzo secolo fa, volendo sottolineare l’originalità del Pci di allora, lo aveva paragonato a una giraffa. Ma a quale animale si può paragonare il M5S?
È ragionevole supporre – sostiene Corbetta – che la categoria ideologica del populismo sia quella che offre la famiglia politica più adeguata nella quale collocare il “partito di Grillo”. Populismo, dunque. Qui la prima esigenza è quella di liberare il concetto di populismo da ogni pregiudizio di tipo ideologico, che ne ha fatto una dirty word, una parolaccia. Il politologo inglese Paul Taggart lo definisce “servitore di molti padroni”, perché “il populismo è stato uno strumento dei progressisti, dei reazionari, degli autocrati, della sinistra e della destra”. E gli attribuisce “un’essenziale capacità camaleontica, nel senso che acquisisce sempre il colore dell’ambiente in cui si manifesta” (“Il populismo”, Città aperta, 2002).
Torniamo al M5S. Nella concezione politica dei pentastellati è del tutto assente la connotazione del popolo-nazione: il “noi” non fa riferimento ad alcuna forma di appartenenza comunitaria o etnica, per cui non esistono (almeno in forma clamorosa) accenti xenofobi escludenti come le pulsioni contro i “diversi”. Ma l’aspetto più nuovo e distintivo del Movimento è un altro. Spesso i populismi hanno individuato il nemico nella modernità. Con il M5S ci troviamo su un pianeta completamente diverso: il popolo al quale si appella Beppe Grillo non è il popolo “semplice e umile”, ma è il popolo sofisticato del web; non nasce dallo spaesamento di fronte alla modernità, ma dalla modernità stessa. Si tratta di un elemento determinante del profilo politico, ideologico e culturale del Movimento.
Finora il rifiuto populista di ogni tipo di rappresentanza poteva avere due sbocchi: la leadership carismatica (esito di gran lunga più frequente) o qualche esperimento di gestione collegiale e di rotazione delle cariche (che non ha prodotto esiti storicamente rilevanti). Gianroberto Casaleggio e Grillo hanno sostenuto la possibilità di una terza via: “Internet cambia in modo radicale ogni processo: politico, sociale, informativo, economico, organizzativo…nulla sarà come prima…scompariranno i media tradizionali, svanirà gran parte delle strutture gerarchiche che regolano i vari aspetti della società e dell’economia…anche i partiti [svaniranno]”. La Rete, inoltre, permetterà al cittadino di partecipare direttamente alla formazione della decisione politica attraverso referendum, stesura e approvazione dei programmi, dove “ognuno vale uno”. Si tratta, come ormai è evidente, del punto più debole dell’universo ideologico-culturale costruito dai due fondatori.
Nella retorica populista il popolo è virtuoso e i nemici sono malvagi, c’è l’angelo contro il demonio. Pertanto la comunicazione populista irrompe nella dimensione immaginaria-affettiva e il leader assume i toni aggressivi del tribuno o quelli religiosi del profeta. Da qui la sua forza dirompente. Secondo Yves Mény e Yves Surel (“Populismo e democrazia”, il Mulino, 2001), i partiti populisti fanno ampio uso del registro della provocazione. Il loro messaggio mira a traumatizzare, a scuotere: giochi di parole di dubbio gusto, attacchi personali, evocazioni sospette, volgarità gratuite distinguono gli attori politici del teatro populista. Tutti questi caratteri si possono trovare in forma paradigmatica nella comunicazione di Beppe Grillo e del suo più arrembante imitatore, Alessandro Di Battista. Potremmo continuare con la “dimensione onirica” del grillismo, che sfrutta sistematicamente il sogno, incoraggiando le ricette semplici e le soluzioni miracolistiche, indulgendo all’impazienza e al malumore dei cittadini.
Ma il successo di Grillo si basa non solo sulle conoscenze che ha del funzionamento della Rete. Si basa anche su un apparato ideologico non meno sofisticato, che mescola il richiamo crescente del populismo e dell’antipolitica con un credo “neopauperista”, che si innesta rapidamente sul fertilissimo terreno del risentimento sociale contro gli sprechi e i risentimenti della casta. Di fronte all’arricchimento personale degli esponenti della casta, denunciato energicamente da giornali e da libri venduti a man bassa, Grillo ricorre a un messaggio di rottura, imponendo ai suoi adepti una specie di voto di castità economica francescana (spesso disatteso). In questo senso, molti grillini sono probabilmente in disaccordo con l’autoritarismo -peraltro, poco mascherato- del proprio leader. Ma sono, al tempo stesso, consapevoli che per portare avanti la propria causa è necessario un leader unico, ben visibile e riconoscibile. Pazienza, poi, se il fantasma del berlusconismo rischia di riprodursi nell’avatar del grillismo.