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Mps e Fondo Atlante, come litigano Zingales e Giannola sulle sofferenze del Banco di Napoli

È scontro a distanza  tra prof. su Fondo Atlante e dintorni. In particolare fra due economisti: il liberista Luigi Zingales e il presidente dello Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) Adriano Giannola. I due, nei giorni scorsi, sulle pagine del Sole 24 ore, non se le sono certo mandate a dire.

 LA STORIA DEL BANCO DI NAPOLI

L’oggetto della contesa è la Sga, ossia la bad bank che, negli anni Novanta, rilevò i crediti “cattivi” del Banco di Napoli. Un tema di estrema attualità in un momento in cui il vero tallone di Achille delle banche italiane, e in particolare del Monte dei Paschi di Siena, è rappresentato proprio da questi crediti di difficile esigibilità (in gergo chiamati npl) che zavorrano i bilanci. E ricordare quel che successe venti anni fa, confrontandolo con quel che accade oggi, può essere utile per evitare di commettere errori e per trarre dall’esperienza qualche insegnamento.
> Ora, il fatto è che alla fine del 2015 la Sga aveva accumulato un “tesoretto” da quasi 500 milioni. La questione è di estrema attualità anche perché 450 di quei milioni confluiranno nel fondo Atlante 2, chiamato appunto a rilevare parte delle sofferenze cedute da Mps. A ogni buon conto, l’analisi di Zingales che ha spinto Giannola ha replicare dalle colonne del quotidiano di Confindustria, parte proprio dall’analisi delle sofferenze del Banco di Napoli.

LA QUESTIONE DEL TESORETTO

La domanda che ci si pone è: ma se è stato accumulato un tale tesoretto non significa che all’epoca i crediti inesigibili siano stati valutati troppo poco? E la domanda che aleggia, riadattata oggi, è: non si sta correndo il rischio di commettere un errore analogo sottovalutando quindi le sofferenze delle banche italiane nel momento in cui vengono vendute per alleggerire i bilanci? Prima di rispondere, Zingales analizza il valore dei crediti inesigibili: “Nel 1996 la Sga acquistò le sofferenze del Banco a un prezzo del 62% del nominale e gli incagli a un prezzo dell’85%. Usando il valore realizzato di queste sofferenze e incagli, i miei calcoli valutano le prime al 22% e le seconde al 32%. La differenza rappresenta 3,4 miliardi di euro di buco”. Quindi, secondo i calcoli dell’economista ed ex consigliere di amministrazione di Telecom Italia ed Eni, le sofferenze non furono sottovalutate al momento del passaggio alla Sga.
>Ma allora come è possibile che sia stato accumulato un tesoretto? Scrive Zingales: “La risposta è molto semplice: tra il 1997 e il 2002, la Banca d’Italia – attraverso il Banco di Napoli – ripianò le perdite della Sga per 3,7 miliardi di euro. Lo fece in base al D.M. 27/9/1974 , anche noto come decreto Sindona perché utilizzato per la prima volta per salvare la Banca Privata Italiana dopo il crack. In sostanza, la Banca d’Italia prestava denaro al Banco di Napoli all’1% e il Banco guadagnava la differenza tra il tasso di mercato sui titoli di stato (che all’inizio del periodo era al 6,8%) e l’1% e usava quei soldi per ricapitalizzare la Sga. Si tratta di una specie di quantitative easing “ad bancam”, che raggiunse a momenti valori molto elevati (12 miliardi di euro). Se la Banca d’Italia avesse acquistato quei titoli direttamente, a guadagnarci sarebbe stato il contribuente. Quei soldi sono quindi a tutti gli effetti un contributo statale. Lungi da essere un tesoretto emerso da un valore superiore alle attese dei crediti deteriorati, il surplus della Sga sono gli avanzi dei contributi statali per ripianare il buco del Banco di Napoli”.

 LE CONTESTAZIONI

L’analisi di Zingales non piace a Giannola, che subito scende in campo: “Alcuni ingredienti decisivi sfuggono completamente al professor Zingales che, attento ai dettagli, ignora la storia. Egli plaude incondizionatamente al Mef per la tutela del contribuente che avrebbe ispirato l’acquisizione del tesoretto subito investito per 500 milioni nel fondo Atlante 2. Plaude anche alla (ritengo improvvida) decisione di trasformare la Sga in un intermediario finanziario, con il che ponendo i presupposti per smantellare una struttura di validità unica nel panorama bancario nazionale. Atlante 1 e 2 che non brillano per competenza specifica e ancor meno per esperienza potranno così affidarsi in modi competitivi ai soliti advisor anglo-italiani”. E ancora, rincara la dose Giannola: “Quanto al Mef, oggetto del peana del professor Zingales, parla per lui il decreto del 3 maggio 2016 che al comma 2 abroga i commi 6 e 6-bis dell’articolo 3 del d.l. 24 settembre 1996, n. 497. Il riferimento al lontano 1996 avrebbe – non fosse altro per cortesia – meritato qualche arido numero supportato da una adeguata contabilità”.

 LA RISPOSTA

Naturalmente Zingales non ci sta. E, sempre dalle colonne del Sole 24 ore, replica immediatamente al presidente dello Svimez: “Il giusto amore che Giannola nutre per la sua terra lo porta a confondere tesi più che legittime con altre che non hanno fondamento nei dati. È legittimo sostenere che la fine improvvisa della Cassa del Mezzogiorno abbia indebolito l’economia del Sud contribuendo alla crisi del Banco di Napoli. È altrettanto legittimo interrogarsi se nel 1997 il Tesoro abbia veramente venduto il Banco di Napoli al meglio. Non sono invece basate sui fatti le tesi che 1) la Banca d’Italia sia stata eccessivamente severa nelle sue valutazioni dei crediti deteriorati (numeri alla mano ho dimostrato il contrario); 2) che il Banco di Napoli non fosse di fatto fallito: la Banca d’Italia ha dovuto ripianare un buco di 3,7 miliardi; 3) che i soldi rimasti della Sga siano dovuti a “miracolosi” recuperi e non alle pesanti iniezioni di capitale fatte da Banca d’Italia tra il 1997 e il 2002”.

 L’ULTIMA REPLICA

Ed è a questo punto che arriva l’ultima replica di Giannola, che per alcuni aspetti corregge il tiro: “Ringrazio davvero il Sole 24 ore per l’ospitalità concessa e il professor Zingales per le considerazioni a margine del mio intervento. Se possibile, mi sembra opportuno fare alcune puntualizzazioni. Chiarisco che mie eventuali confusioni non hanno a che fare con l’amore per la mia terra; non sono meridionale, bensì marchigiano”. E ancora: “Nel mio intervento non sostengo affatto che la Banca d’Italia sia stata eccessivamente severa, al contrario (e mi scuso se posso aver dato un’impressione diversa) porto quella severissima ispezione a riprova della tesi ampiamente documentabile delle enormi responsabilità del Tesoro in conseguenza delle quali moltissimi crediti giudicati in bonis si tramutarono in incagli e sofferenze. Ricordo molto bene il serrato confronto con il team ispettivo”. Dopodiché Giannola passa a esaminare la perdita che, secondo Zingales, la Sga avrebbe accumulato per la cessione dei crediti deteriorati: “Merita anche un commento – dice – il dato sulla perdita Sga che il professor Zingales fissa a 3,7 miliardi di euro. Di questa somma 1,7 miliardi sono interessi passivi pagati dalla Sga sul prestito contratto per acquistare il portafoglio crediti del banco. Solo 1,5 miliardi sono una svalutazione dell’attivo che, si noti, non sarebbe stata necessaria se la Sga avesse acquistato i crediti non dico al prezzo di oggi, cioè circa il 30%, ma almeno al 50% del valore nominale (invece che a un valore medio del 70%). Ma questo approccio avrebbe spostato il costo sull’acquirente dell’asta pubblica”. Inoltre, aggiunge il presidente dello Svimez: “Mi sembra tecnicamente improprio chiamare iniezioni di capitale fatte da Banca d’Italia tra il 1997 ed il 2002 quello che, immagino, si riferisca alla copertura delle perdite Sga via decreto Sindona. Quelle iniezioni sono infatti del Tesoro che rinuncia a una quota del signoraggio (del quale, come dice il termine, è unico titolare. La Banca d’Italia ha una funzione strumentale in tal caso). Se così non fosse, alla luce dei lauti incassi collegati alla cosiddetta asta competitiva parlare di perdite del Tesoro sarebbe piuttosto azzardato”.

IL DIBATTITO

Insomma, a distanza di venti anni, si continua a discutere della bad bank del Banco di Napoli. Ma è indubbiamente utile e proficuo farlo nella misura in cui si cerca di analizzare la situazione di oggi. In proposito, giova ricordare che proprio in questi giorni il Monte dei Paschi è alle prese con la cessione al prezzo di 9,2 miliardi di un maxi pacchetto di sofferenze del valore originario di 27,7 miliardi che a bilancio erano già state svalutate a 10,2 miliardi (ciò implica un valore delle stesse a bilancio di circa il 36% contro il 33% del prezzo di vendita). Innanzi tutto, essendo l’operazione particolarmente complessa e articolata, bisognerà di vedere se la banca guidata da Fabrizio Viola riuscirà a chiudere la cessione. E una volta che l’avrà fatto, poi, si tratterà di comprendere se, ed eventualmente in che misura, il valore di quelle sofferenze (che sulla base del piano saranno cartolarizzate) sarà recuperato.



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