La notizia del giorno, credetemi, non è quella che avete trovato sulle prime pagine di quasi tutti i quotidiani. Che hanno più o meno clamorosamente annunciato il “ritorno” di Beppe Grillo al comando del suo movimento. Come se lo avesse mai davvero lasciato per farne solo il “garante”, e non fosse invece riuscito, più semplicemente, a governarlo: né da solo, né con il compianto Gianroberto Casaleggio, né con Casaleggio jr, né con i “ragazzi” del direttorio, come li ha liquidati paternalisticamente a Palermo dal palco dove è sempre difficile distinguere i confini fra Grillo comico e Grillo politico. Cosa, questa, che credo gli faccia in fondo piacere perché in questa doppia veste egli sta comodissimo.
Meno comoda sta purtroppo l’Italia, che a causa delle dimensioni elettorali, parlamentari e ora anche amministrative dei grillini sta pagando e forse ancora più pagherà gli effetti di questo curioso leader, che non si sa se più da teatro o da movimento politico. Che già per il fatto di non volersi chiamare partito, pur essendolo, dovrebbe impensierire chi lo ha aiutato a crescere votandolo.
Quando Renzi, appena definito proprio da Grillo “menomato mentale”, se l’è presa giustamente con la nuova sindaca di Roma Virginia Raggi, dicendole che deve “cambiare mestiere” dopo avere rifiutato per paura, e non per ragioni contabili, l’occasione di sviluppo rappresentata dalla candidatura della Capitale d’Italia ad ospitare le Olimpiadi del 2014, non avrebbe dovuto fermarsi all’avvocatessa insediata dagli elettori al vertice del Campidoglio. Egli avrebbe dovuto anche invitare Grillo a scegliere finalmente fra le professioni di comico e di politico, perché entrambe insieme fanno solo un gran casino. E chiedo scusa ai lettori per avere fatto torto al casino.
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La notizia del giorno, dicevo, non è la presunta riconquista del movimento 5 stelle da parte di Grillo, al quale sono comunque grato –per inciso- di avere finalmente rivalutato, riproponendolo, il sistema elettorale proporzionale e i voti di preferenza. Con i quali personalmente, da elettore e da cittadino, mi sono trovato bene per i tanti anni della troppo ingiustamente vilipesa prima Repubblica.
Sì, d’accordo, ci furono parecchi governi, forse troppi, ma in quasi cinquant’anni si alternarono solo tre tipi di maggioranza: il centrismo, il centrosinistra e, per un brevissimo periodo, all’insegna della provvisorietà e straordinarietà, la solidarietà nazionale.
La sostanziale stabilità –altro che instabilità- garantita dal sistema proporzionale è stata di recente riconosciuta anche da Eugenio Scalfari, che pure negli anni Novanta coltivò l’illusione, condivisa da tanti, che il sistema maggioritario fosse migliore.
Scalfari, dicevo. Ecco, è proprio lui la notizia del giorno con quell’editoriale per la sua Repubblica –il solito appuntamento festivo con i lettori- che s’impone già per il titolo, che di solito egli si fa da solo: “Renzi batte i pugni in Europa ma in Italia stia sereno”.
Non credo che Barpapà, come Scalfari è affettuosamente chiamato dagli amici, abbia voluto usare l’incitazione alla serenità nella maniera beffarda con la quale alla fine del 2013 proprio Renzi l’adoperò nei riguardi dell’allora presidente del Consiglio Enrico Letta, mentre si accingeva a sostituirlo.
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Raccomandata o garantita che sia, la serenità di Renzi mi sembra debba derivare dalla predisposizione che ho avvertito nell’editoriale di Scalfari a votare ormai sì al referendum costituzionale, che lui e il suo editore Carlo De Benedetti avevano condizionato ad un serio impegno del governo a modificare la legge elettorale della Camera chiamata Italicum.
Ebbene, nella consapevolezza non infondata di avere un certo ascolto elettorale, con i messaggi quotidianamente lanciati dalla sua Repubblica, Scalfari ha certificato l’impressione che le aperture fatte da Renzi siano credibili e che in ogni caso, tra iniziative parlamentari e interventi della Corte Costituzionale, pur differiti a dopo il referendum, la legge elettorale cambierà. E per cambiarla Scalfari si è speso anche in alcuni consigli, essendo in lui invincibile la tentazione di fare appunto il consigliere, come è invincibile in Grillo la tentazione del comico.
Sui consigli di Scalfari come cambiare la legge elettorale, trasferendo il ballottaggio, credo senza premio di maggioranza, dalla sede nazionale a livello di ampi collegi uninominali, dove i canditati dovrebbero poter decidere da soli se accordarsi o no con altri, non dico nulla perché la materia è troppo tecnica. E poi, che diritto avrei di intromettermi nel dialogo fra Scalfari e il presidente del Consiglio? Se la vedranno loro, che si sentono e si confrontano spesso. Così come evito di motivare il dissenso che a caldo mi ispirano i consigli di Scalfari a Renzi sul versante della politica economica, dove gli propone una mezza tassa patrimoniale sui redditi sopra i 120 mila euro l’anno per finanziare una riduzione di almeno il 30 per cento dei contributi previdenziali –il cosiddetto cuneo fiscale- pagati dalle aziende per i loro dipendenti.
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Non meno importante, se non addirittura più importante ancora, è la copertura fornita da Scalfari a Renzi, diversamente dal presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, nello scontro contro l’asse franco-tedesco in Europa nella gestione dell’austerità e dell’immigrazione.
I “pugni sul tavolo”, impropri a livello nazionale perché la nostra è una Repubblica parlamentare, in cui le Camere sono espressione della volontà popolare, sono accettabili in Europa. Il cui Parlamento –ha giustamente ricordato Scalfari- non è eletto da un popolo sovrano europeo, che non c’è ancora mancando gli Stati Uniti d’Europa, ma per quote dagli elettori dei singoli Paesi.
I “pugni” di Renzi sono condivisi dal fondatore di Repubblica perché espressione non di un nazionalismo, da cui il presidente del Consiglio si sarebbe ormai affrancato dopo esserne stato tentato, ma di un più convinto europeismo, nella direzione proprio di quegli Stati Uniti d’Europa che i nazionalismi francese e tedesco ostacolerebbero.
Non male per Renzi, direi.