Accogliamo l’arrivo in edicola de La Verità con l’incoraggiamento dovuto a qualunque nuovo quotidiano, senza nascondere un filo di perplessità: a quale e quanta vita può ambire un giornale che si inserisce in un mercato asfittico, per usare un eufemismo (3,2 milioni di copie vendute nel 2014, Nando Pagnoncelli dixit)? Maurizio Belpietro, peraltro, ha imbarcato un’ottima ciurma di giornalisti, con nomi come Sarina Biraghi e Gianandrea Zagato, commentatori acuti quali Toni Brandi e Roger Scruton, persino ex Repubblica-Espresso come Carlo Cambi e Francesco Bonazzi, ma il segmento nel quale va a ficcarsi è già occupato da Tempo, Libero e Giornale, testate che certo non brillano per salute commerciale.
L’impressione è che l’unica – schizofrenica – risposta al calo del mercato culturale, nel nostro sistema para-liberale, sia l’aumento dell’offerta. Se si leggono pochissimi giornali, si leggono pochi libri. Eppure i Saloni del libro raddoppiamo e in concorrenza con quello torinese, che proprio quest’anno sembrava aver ritrovato un singulto di vivacità dopo un periodo di appannamento, apre un’altra fiera a Milano. Lasciamo stare chi abbia ragione o torto, tanto gli editori, come in guerra accade sempre, perderanno tutti. Sottolineiamo solo la chiosa del ministro Dario Franceschini che, alla fine di un’estenuante quanto leziosa trattativa, ribadisce l’appoggio al Lingotto contro il progetto dell’Aie con parole memorabili: “L’evento di Milano ha carattere commerciale, noi non parteciperemo”. Tanto per ribadire come, quando si parla di libri, la commercialità sia un elemento contaminante, negativo di per sé: una posizione che si inserisce alla perfezione nella linea elitista sempre assunta dall’inteligencija italiana contro la cultura popolare.
Lo potremmo chiamare il paradigma della boxe, sport che dopo un’epoca aurea, quella che ancora molti di noi hanno vissuto da spettatori diretti con campioni come Nino Benvenuti e Cassius Clay (prima ancora che diventasse Mohammed Alì), entrò in una crisi profonda, determinata da varie concause, dalla quale cercò di uscire con la secessione delle federazioni e l’aumento del numero di titoli in palio. Ovviamente la cura peggiorò il male, ma la lezione non sembra essere stata appresa visto come il calcio odierno, in crisi di sostenibilità economica dovuta all’aumento dei costi e al calo dei ricavi da stadio, abbia deciso di puntare sui diritti televisivi con il cosiddetto spacchettamento, che porta a non poter mai seguire una giornata di campionato coesa. Le squadre che abbiano la ventura di arrivare alle coppe europee e ai relativi guadagni, poi, sono costrette a dotarsi di rose di giocatori pletoriche che determinano ascese esponenziali dei costi. Insomma, di nuovo, la toppa è peggiore del buco.
E la televisione? Calano gli spettatori, soprattutto giovani, ma aumentano le reti grazie al digitale. Il cinema? Crollano gli spettatori ma aumenta il numero delle sale con i multiplex, che però comportano la chiusura delle ‘vecchie’ sale nei quartieri centrali dove fungevano da punto di aggregazione sociale. È come se nella cultura, nello sport, nello spettacolo, nel mercato dell’“inutile” – che è ormai indistinguibile da quello dei beni e servizi primari e anzi, nelle società avanzate, è il vero motore dello sviluppo socio-economico – non ci fosse altra capacità di reazione alla crisi. L’offerta incapace di evolvere non lascia mai, anzi raddoppia.