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Vi racconto le sfide delle regioni tra Europa e Costituzione riformata

La prima domanda che dobbiamo porre oggi è se le regioni avranno un futuro, non in Italia, o nella vicenda importante ma certamente locale della riforma costituzionale italiana, ma un futuro in un mondo in cui la apertura globale dei commerci ha messo in evidenza tutte le differenze esistenti ed ha scatenato paure, a cui si sta rispondendo tornando a proporre confini nazionali e riaccentramenti statali come unica risposta alla difficoltà di confrontarsi con la complessità’ del nuovo mondo.

Bisogna allora distinguere tra “regioni” intese come territori aventi una omogeneità ed identità tali da distinguerli da altri ambiti territoriali e “regioni” come livelli intermedi di governo fra le città ed i governi nazionali. Va da sé che parlando di Europa dovremmo introdurre l’ulteriore livello di governo europeo, e di fatto non è irrilevante che oggi proprio i due livelli, quello sopra gli stati nazioni, l’Europa, e quello sotto lo stato nazione, le regioni, siano posti in discussione.

EUROPA E REGIONI

La deriva europea sta portando l’Unione, figlia legittima della Comunità uscita dalla tragica guerra fra nazioni che aveva segnato la prima parte del secolo scorso, verso una associazione intergovernativa, figlia illegittima delle disparità accumulatesi in questi anni di crisi fra la Germania allargata ai suoi satelliti funzionali ed il resto d’Europa, sempre più periferia di sé stessa.

Una periferia composta di stati in larga parte accolti o forse piombati in una Unione di cui non avevano vissuto quell’evoluzione che aveva portato l’Europa a trasformarsi da unione doganale difensiva in un soggetto, che nel momento in cui si dava una moneta unica, si allargava ad Est, si dava un nuovo trattato, aveva anche l’ambizione, o comunque lasciava crescere la speranza, di poter giocare un ruolo di leadership nel nuovo mondo globale

L’Europa che voleva diventare una Unione al di sopra degli stati aveva bisogno di superare gli stessi confini nazionali e rigenerare una geografia composta da territori, e quindi governi intermedi, che potessero rappresentare con un ben più rilevante dettaglio la effettiva condizione sociale ed economica dell’intera unione.

D’altra parte era proprio la storia della Germania federale che dimostrava come la forza del livello federale stava nella capacità di disporre di governi intermedi in grado di garantire soluzioni mirate ed adeguate per ogni territorio, non solo regioni “accompagnatrici di impresa” ma istituzioni in grado di garantire non solo condizioni di crescita economica ma anche di equità sociale, capaci di favorire processi di consolidamento di comunità locali, ma bene integrate nel contesto più ampio della nazione.

La crisi della stessa Unione, in una evidente evoluzione – scusate, regressione – in senso intergovernativo, non solo ridà fiato alla facile identità tra Stato e sua amministrazione centrale, ma toglie di mezzo anche un attore, che, nel bene e nel male, rappresenta gli specifici problemi di un continente, che non è riuscito nel suo intento di essere un active player nella scena mondiale, proprio perché in una visione intergovernativa ogni stato intende giocare la propria partita, sia in economia, che in politica internazionale, senza sentirsi parte di un effettivo nuovo soggetto sovraordinato. Lo abbiamo visto tragicamente nelle guerre esplose attorno a noi, ed ora lo vediamo negli effetti che quelle guerre stanno portando verso di noi.

REGIONI COME TERRITORI E GLOBALIZZAZIONE

L’evidenza dei fatti del resto ci spiega che nella globalizzazione i territori contano molto di più di prima. I territori contano proprio per la loro struttura interna, per la loro organizzazione sociale, per la efficienza delle loro amministrazioni, per quel capitale sociale di storia, solidarietà e partecipazione alla vita collettiva che fa consolidare una resilienza in grado di affrontare shock esterni, da una crisi aziendale ad un terremoto, senza deflagrare in conflitti permanenti, ma anzi fa rispondere rafforzando la comunità, rendendola perfino più innovativa.

I territori contano ancor più in una fase di profonda riorganizzazione economica, in cui i cicli produttivi si frammentano e si riorganizzano in global value chain, in cui si localizzano le diverse fasi in ragione delle diverse convenienze che i territori possono offrire alle imprese. In territori poveri di capitale umano, fortemente destrutturare socialmente, ed istituzionalmente incerte si potranno collocare fasi a basso valore aggiunto, con i conseguenti esiti in termini di salari, consumi, ed anche di opportunità di crescita.

La testa dei cicli produttivi, dove stanno le capacità creative, il controllo dei comandi operativi, le decisioni viene posta in luoghi ad alta densità di capitale umano, con strutture educative e di ricerca di alto livello, con istituzioni in grado di dialogare e tenere insieme diversi interessi, componendoli fra loro, garantendo un ambiente di qualità, perché questo viene percepito non solo come bene pubblico, ma anche come esternalità positiva per uno sviluppo di qualità.

Il ruolo del capitale umano diviene il fattore che fa la differenza. Non solo in termini di educazione di base o di formazione professionale specifica, ma soprattutto in termini di disponibilità di percorsi di crescita personale e di interazione fra le diverse istituzioni che producono conoscenza e consolidano competenze necessarie allo sviluppo della società. Non solo quindi esistono territori a diversa densità relazionale, ma la loro diversità tende ad aumentare nel momento in cui si generano condizioni di maggiore integrazione internazionale ed in assenza di politiche di riequilibrio nelle relazioni interne all’intera area comune.

Ne è la riprova la stessa Europa, che dal 2000 ad oggi, dalla entrata dell’Unione monetaria, ma senza una effettiva unione politica anzi con sempre meno unione politica, ha consolidato un centro, che va dalle regioni intermedie della Germania fino a Lombardia ed Emilia-Romagna, in cui non solo crescono i redditi più che nelle periferie, ma soprattutto si è attivato un meccanismo di integrazione industriale, fra imprese della intera area, che rende evidente come sia in atto una trasformazione strutturale, che genera una geografia economica diversa dalla geografia politica data dagli stati nazionali.

ACCOMPAGNATRICI DI IMPRESE O ISTITUZIONI DI GOVERNO?

In queste aree in progressiva integrazione economica in cui si pone l’obiettivo di attrarre le “teste” dei cicli produttivi non basta essere accompagnatori di imprese nei loro cammini autonomi, servitori fedeli di altrui fortune, in una visione un po’ waltdisneyana del mercato, che “tutto sa e tutto dirige”. Bisogna organizzare il territorio con una vista più lunga delle imprese, bisogna anzi dimostrare alle imprese che intendono investire, che la formulazione delle loro aspettative avviene in un contesto socialmente in grado di ragionare nel lungo periodo.

Questo richiede la capacita’ di progettare, sostenere, realizzare investimenti nelle infrastrutture essenziali alla crescita, non solo strade e ponti, ma strutture educative e formative, università, e servizi alla persona ed alla collettività, tali da sedimentare una comunità’ intelligente, non solo smart, cioè brillante, ma intelligent, cioè in grado di giocare insieme, abbassando la incertezza sociale e quindi favorendo le aspettative necessarie agli investimenti.

Questo pero’ richiede una legittimazione di azione, che comunque passa nel nostro Occidente per un consenso elettorale, poteri adeguati ed anche una dimensione sufficiente per sostenere strategie di investimento sociale di lungo periodo.

D’altra parte la stessa richiesta di sviluppo da parte di territori periferici richiede forme legittimate e sostenute da adeguati poteri. Emerge dunque una funzione di “linkage” , cioè di politiche “al piano superiore” che debbono creare legami fra i diversi territori, non solo sussidiare le minorità ma predisporre ed attuare azioni di connessione fra le diverse realtà per aumentarne l’integrazione reale.

Ma questo è in verità il prezzo che paghiamo per la poca Europa che siamo costretti a vivere. La scarsa capacità della Europa di presentarsi come soggetto capace di “fare integrazione” fra i territori rilancia certo il ruolo degli stati nazionali, ma ne ripone però le contraddizioni all’interno degli stessi singoli stati nazionali, facendone anzi colpe originarie, da controllare e bacchettare, anziché luogo di azione collettiva per rendere più forte l’insieme inteso comune. Cresce a livello locale l’impotenza, e nella impotenza si sviluppa l’arma sempre carica del veto, che blocca tutti nella speranza di accendere emergenze a cui non si può negare aiuto.

REGIONI COME GOVERNI INTERMEDI, MA INTERMEDI A COSA?

Che la storia del regionalismo italiano sia largamente esprimibile come il gioco dei veti incrociati è abbastanza evidente, si è trattato però di un regionalismo nato a strappi, senza una effettiva devoluzione di poteri da parte di un potere centrale effettivamente riorganizzato su base territoriale, quanto piuttosto di una sovrastrutturazione, che ai poteri preesistenti aggiungeva altri poteri, nella speranza che la creazione di una zona grigia tra gli uni e gli altri potesse indurre virtuose collaborazioni interistituzionali.

Tuttavia bisogna dare attenzione al senso stesso della geografia reale del paese, che non è riducibile a grandi aree metropolitane ed aree interne, in una lettura molto semplificata in cui ovunque a città dinamiche si oppone una dura e arida montagna interna. Gran parte dello sviluppo italiano è avvenuto al di fuori delle maggiori concentrazioni urbane, in quella tipica città diffusa che e’ quella Terza Italia tanto descritta dalla letteratura degli anni passati ed ora già dimenticata.

Ed un conto sono grandi agglomerati urbani, eccedenti effettivamente le aree amministrative dei comuni originari, ed un conto sono città medie per noi (e piccole a livello internazionale), che per definire metropolitane abbiamo dovuto dar loro in dote i vecchi territori provinciali, compresi centri minori che ben poco hanno di metropolitano.

Ed egualmente che la storia delle regioni italiane abbia registrato condizioni ben differenziate, proprio in ragione della integrazione con altre regioni di Europa, è altrettanto evidente, cosi come è evidente quanto differenziato sia stato lo stesso uso dei fondi europei per lo sviluppo, che – al netto di cattive gestioni, o peggio di fenomeni di malaffare, che vanno sempre colpiti nello loro specifico – vanno riferiti a situazioni economiche e sociali sempre meno generalizzabili, dovendo basarsi in una situazione internazionale così incerta sulla capacità di attivare processi endogeni di sviluppo.

La riforma costituzionale pone questi temi e se non la si vuol banalizzare richiede lo sviluppo di un nuovo regionalismo dinamico, in cui governi e rappresentanze regionali, certamente da rivedere e riorganizzare, debbono essere più mirati a ricercare uno sviluppo, che pur radicato in contesti locali debbono muoversi in economia aperta. Ma questo richiede anche un cambiamento profondo della amministrazione centrale, perché lo sviluppo non si governa con i codici, ma con la capacita’ di generare integrazione fra soggetti diversi e complementari, quindi con politiche attive, che in una governance multilivello, come si dice oggi elegantemente, possa agire dal basso verso l’alto, per giungere magari a ridare dignità e vigore ad una Europa snervata dai nazionalismi di ritorno. La riduzione dei poteri delle regioni non può ritrovare la vecchia amministrazione centrale, ma richiede una profonda riorganizzazione anche dei poteri centrali.

Questo implica comunque di esplorare quella ipotesi di regionalismo asimmetrico, mi guardo bene di dire federalismo asimmetrico, che viene illustrato forse non a sufficienza nella riforma, che tuttavia diverrà lo strumento per governare, come si diceva dianzi, geografie economiche diverse dalle geografie politiche attuali. E qui il senato delle regioni potrà giocare un grande ruolo, se effettivamente verrà posto in grado di non essere un veto player o un semplice accompagnatore di altrui volontà.

Sullo sfondo resta il fantasma dell’Europa che volevamo e che non può ridursi al consiglio dei capi di stato e di governo, che poi tornati nelle rispettive capitali avviano trattative parallele con chiunque, senza sentirsi parte di una comune responsabilità.
Resto convinto che il ruolo delle regioni, come istituzioni legittime di territori in movimento, sia da affidarsi ad una Europa che deve ritrovare la propria ragione di esistere al di sopra degli stati nazionali. O si ritrovano i valori ideali della convivenza civile o ogni riforma, per quanto necessaria, non sarà sufficiente.

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