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Tutti i perché della smoderata passione di Matteo Renzi per Raffaele Cantone

Raffaele Cantone e Matteo Renzi

C’è qualcosa, più che qualcuno, a non convincermi della lista degli otto ospiti che il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha deciso di portarsi appresso a Washington per una, forse l’ultima cena ufficiale di commiato dalla Casa Bianca che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, al termine ormai del suo secondo e non ripetibile mandato, ha concesso ad una delegazione rappresentativa dell’Italia.

Non mi convince, in particolare, il criterio, il ragionamento, il motivo, chiamatelo come volete, della scelta di Raffaele Cantone, chiamato da Renzi ad affiancare, in ordine rigorosamente alfabetico, come il meglio del nostro Paese l’architetta Paola Antonelli, direttrice di sezione del Museo d’arte moderna di New York, lo stilista Giorgio Armani, il regista, attore, comico e quant’altro Roberto Benigni, insignito del premio Oscar, Fabiola Gianotti, direttrice del Cern di Gineva, Giusi Nicolini, sindaca ormai leggendaria di Lampedusa, avamposto della generosa accoglienza degli immigrati, Paolo Sorrentino, regista insignito pure lui del premio Oscar, e Bepe Vio, campionessa paraolimpica di scherma.

Non ho nulla di personale, sia chiaro, contro Raffaele Cantone: un giovane e valoroso magistrato a lungo impegnato sul fronte della difficile e rischiosa lotta alla camorra, in aspettativa dal 2014 per presiedere l’Autorità anticorruzione e già collaboratore, per consulenze nei rami di sua competenza, dei governi di Mario Monti e di Enrico Letta.

Non solo non ho nulla di personale contro Cantone, ma confesso di avere per lui grande simpatia, sperando di non metterlo in imbarazzo e di non creargli problemi per quello che sto per scrivere. Mi piacciono la sua faccia pulita, quel sorriso ottimistico che gli vedo sempre sul volto, la franchezza con la quale esprime le sue opinioni e rivela persino i suoi trascorsi elettorali, avendo votato per l’allora Movimento Sociale, che in Italia e fra i suoi colleghi non faceva certamente fino, anche se  in questo egli era in compagnia di un signor magistrato come Paolo Borsellino, caduto eroicamente sul fronte della lotta alla mafia. Mi piacciono infine, o soprattutto, le occasioni in cui a Cantone capita di entrare in conflitto col sindacato delle toghe. Che, fra tutti i sindacati, considero il più potente d’Italia per la capacità che ha di condizionare, volente o nolente, la società, la politica e le istituzioni.

Convinto come sono, a torto o a ragione, che viviamo ormai, e almeno dal 1992, in una Repubblica più giudiziaria che parlamentare, alla faccia di quelli che ritengono quest’ultima minacciata dalla riforma costituzionale sotto procedura referendaria, considero consolante il fatto che Cantone abbia avuto il coraggio di denunciare con forza le degenerazioni delle correnti dei magistrati, e di reagire con altrettanta forza alle loro proteste.

Se mi fosse capitato di finire sotto indagine o processo con un magistrato come lui, avrei dormito sempre fra due guanciali: cosa che, vi assicuro, non mi è mai successo in ormai più di cinquant’anni di professione, o mestiere giornalistico. Durante i quali mi capita ancora, pensate un po’, di rischiare di vendermi la casa per avere osato criticare la sentenza di condanna di un imputato, diciamo così eccellente, di prostituzione minorile smentita in appello e in Cassazione, senza neppure fare i nomi peraltro delle autrici del verdetto, prendendomela solo col cosiddetto dispositivo e col genere casualmente ma legittimamente, per carità, tutto femminile di coloro che l’avevano appena emesso.

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Potrò sbagliare, naturalmente, ma scegliere un magistrato pur eccellente e affidabile come Cantone, con la qualifica e le funzioni che ha, per presentarlo al presidente della maggiore potenza del mondo come il meglio del Paese, secondo me potrebbe accreditare agli occhi del padrone di casa l’impressione, d’altronde diffusa tra i manettari italiani, che tra la politica e la lotta alla corruzione da noi vi sia un’assoluta incompatibilità.

Mi direte che è stato proprio un politico – il presidente del Consiglio – a preferire Cantone, pur non essendo questa scelta di sua stretta e diretta competenza, ma tenendo a far conoscere il tifo, diciamo così, che faceva per lui. E poi caricandolo sempre più di compiti, pur nell’ambito del lavoro dell’Autorità che egli presiede. Ad ogni emergenza che si affaccia, dai rimborsi della dissestata Banca Etruria ad un appalto pubblico da prima pagina, Renzi chiama Cantone, E così hanno cominciato a fare anche gli amministratori locali, in una corsa che temo finisca per sfiancare il malcapitato e gli uffici che dirige. Ma è proprio in questa scelta politica di un magistrato a presidio di un’Autorità che è amministrativa, non giudiziaria, che vedo un errore. Anzi, un’autorete.

Mi conforta che questa stessa impressione, pur non espressa forse in termini così espliciti, sia stata manifestata più volte, a proposito dello stesso Cantone ma anche di altri magistrati chiamati a supporto di giunte comunali e regionali più o meno importanti, da uno come l’ex presidente della Camera Luciano Violante: già magistrato pure lui e per molti anni rappresentato o considerato come il punto di riferimento del cosiddetto “partito dei giudici”. Che già era un affare, una rappresentazione edulcorata di una realtà ancora peggiore che si voleva denunciare: il partito non dei giudici ma dei pubblici ministeri, cioè dell’accusa. E di un’accusa alla quale non io ma il vice presidente in carica del Consiglio Superiore della Magistratura, l’avvocato ed ex parlamentare e sottosegretario Giovanni Legnini, non quindi il primo politico improvvisato, ha appena rimproverato pubblicamente di non svolgere al meglio il proprio lavoro quando evita, purtroppo di frequente, di cercare gli elementi non solo contro ma anche a favore dell’indagato di turno, secondo i dettati della legge.

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Giusto per non perdere l’abitudine, chiudo con un’osservazione sulla campagna referendaria per la conferma o la bocciatura della riforma costituzionale registrando il no affidato dal senatore a vita ed ex presidente del Consiglio Mario Monti al Corriere della Sera. E a chi sennò?, visto che egli è stato per tanti anni editorialista del giornale milanese di via Solferino.

Quello di Monti era ed è, francamente, un no scontato, conoscendo ormai opinioni e umori del senatore a vita augurabilmente lunghissima, per carità. Meno scontato era un no, almeno secondo le scelte fatte nella titolazione dal giornale che ne ha ospitato l’intervista, con motivazione che più lontana non potrebbe essere dal contenuto della riforma, che pure dovrebbe essere l’unico metro di giudizio in un referendum nel cui quesito stampato sulle schede elettorali, salvo bocciature chieste con i ricorsi, sono così elencati i temi: “superamento del bicameralismo paritario, riduzione del numero dei parlamentari, contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, soppressione del Cnel, revisione del titolo V della parte II° della Costituzione”, riguardante notoriamente le regioni, le province e i comuni.

Quello che dà più fastidio a Monti sembra essere chi guida il governo promotore di questa riforma, cioè Renzi, cui del resto egli da tempo non lesina critiche, d’altronde ricambiato. “Non posso legittimare – ha detto l’ex presidente del Consiglio, avvolto nella solita austerità del suo loden – un modo di generare consenso basato sulle elargizioni”.

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