Ma che ci azzecca? L’espressione dipietresca sorge naturale leggendo stamattina la fluviale intervista del Corriere della Sera al suo ex editorialista Mario Monti, onusto di molti ex: ex commissario europeo, ex rettore della Bocconi, ex presidente del Consiglio, ex leader di Scelta Civica prima fondata e poi affondata.
Dall’alto dei suoi tanti ex e di tanta ferrea logica accademica e scientifica, Monti argomenta con l’intervistatore Federico Fubini così il suo No al referendum costituzionale in programma il 4 dicembre: voto No perché Matteo Renzi sta rottamando la mia austerità. E che ci azzecca? E’ un voto sulla riforma costituzionale, quello del 4 dicembre, o sulla Legge di bilancio? Bah.
La sintesi non è troppo stressata. Si arguisce dalla sinuosa risposta di Monti. Ecco la parte clou:
“A me risulta impossibile dare il mio voto ad una costituzione che contiene alcune cose positive e altre negative, ma che – per essere varata – sembra avere richiesto una ripresa in grande stile di quel metodo di governo che a mio giudizio è il vero responsabile – molto più dei limiti della costituzione attuale – dei mali più gravi dell’Italia : evasione fiscale, corruzione, altissimo debito pubblico. Dire che una parziale modifica della costituzione, conseguita in un modo così costoso per il bilancio pubblico, sarà molto benefica per la crescita economica e sociale dell’Italia è, ai miei occhi, una valutazione che non posso accettare. Se prevarrà il sì avremo una costituzione riformata, forse leggermente migliore della precedente, ma avremo con essa l’approvazione degli italiani a un modo di governare le risorse pubbliche che pensavo davvero il governo Renzi avrebbe abbandonato per sempre, come ha fatto meritoriamente con gli eccessi della concertazione tra governo e parti sociali”.
Beninteso, Monti non prevede cataclismi finanziari in caso di vittoria dei No, ma neppure grida a una democrazia menomata e accentrata in caso di vittoria del Sì: “Se vincesse il No non sparirebbero gli investitori esteri. Se vincesse il Sì non sparirebbe ogni democrazia. E la UE, che peraltro non ha mai chiesto questa modifica della costituzione, può stare tranquilla”, dice.
Nel frattempo il sottile pensiero gli ha consentito di passare dal Sì al No in pochi mesi: “Ho votato sì in prima lettura nell’agosto del 2014 – spiega – poi in seconda e terza lettura non ho votato perché ero assente per impegni europei”. In quegli impegni europei, chissà, avrà maturato il no. Accresciuto da una manovra economica, come quella approvata sabato scorso dal consiglio di ministri, sicuramente di galleggiamento e – agli occhi dell’ex commissario europeo – che infrange impegni e rigori europei. In primis l’austerità.
Francesco Damato, editorialista di punta di Formiche.net, già tempo fa aveva rimarcato una certa discrasia fra teoria e pratica dell’ex premier: “Mario Monti percepisce già dal 9 novembre 2011 l’indennità parlamentare di una ventina di migliaia di euro mensili. Che si aggiungono naturalmente alle pensioni ch’egli si è meritatamente guadagnato, per carità, con i suoi diversi lavori: accademici, come dice la sua biografia targata Wikipedia, amministrativi e d’altro tipo ancora”. “Dall’alto di queste posizioni – concludeva Damato – mi sembra francamente un po’ troppo comodo, e ben poco sobrio, per ripetere un aggettivo caro al professore bocconiano, impugnare la frusta per batterla sulla schiena di altri meno fortunati. Se cominciasse lui a dare l’esempio rinunciando a qualcosa di legittimo ma anche di superfluo che ha o percepisce, il suo rigore comincerebbe ad essere meno impopolare, o più credibile, sempre per ripetere un aggettivo di uso frequente per lui”.
Ma il verbo montiano non è più condiviso neppure dai montiani di antico conio. Basta ricordare quanto e come montiani della prima o della seconda ora sostengano o facciano parte dell’esecutivo tanto bistrattato dall’ex presidente del Consiglio. Si pensi a Carlo Calenda, ora ministro dello Sviluppo economico, a Benedetto Della Vedova, sottosegretario agli Esteri, a Enrico Zanetti, viceministro dell’Economia, ad Andrea Romano, deputato Pd e condirettore del quotidiano l’Unità.
Ma l’ultima, e più tosta, sconfessione della teoria e della pratica del montismo è arrivata ieri da Gianfranco Polillo, sottosegretario all’Economia proprio nel governo Monti. Commentando e analizzando su Formiche.net la Legge di bilancio firmata da Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan – e sottolineando luci e ombre della manovra – Polillo ha scritto:
“Mentre nel 2012 e nel 2013 gli altri Paesi perdevano potenza con una caduta cumulata dell’1,2 per cento. In Italia si assisteva ad un nuovo crollo. Il Pil scendeva di altri 4,5 punti. Un nuovo shock. Ma questa volta asimmetrico: prodotto cioè dalle politiche seguite dai governi Monti e Letta. L’austerity imposta da quelle politiche allontanò definitivamente l’Italia dal contesto continentale. E da allora non si è più ripresa. Si può discutere se quelle politiche furono dovute o volute. Sullo sfondo era la crescita degli spread, ma anche l’esistenza di un governo tecnico che non aveva la forza di reggere il confronto europeo. Con il senno di poi si potrebbe dire che, dopo la crisi del 2011, forse era meglio andare subito ad elezioni anticipate: piuttosto che scegliere la strada di una lunga agonia“.
Un de profundis definitivo per le teorie e le pratiche montiane?