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Referendum, quando il No diventa un Sì

Maria Elena BoschI

La politica italiana è tutta concentrata sul referendum costituzionale del 4 dicembre. In questo senso l’intenso dibattito sulla legge di stabilità sta confermando un connotato relativamente preciso della campagna elettorale in atto, la quale, comunque sia, ha delle forti implicazioni logiche sul futuro del Governo guidato da Matteo Renzi.
In questo, nulla di strano. Le modifiche costituzionali volute dall’esecutivo sono parte integrante della “missione rottamatrice” che fin dall’inizio l’ex sindaco di Firenze si è proposto di attuare sostituendosi in corsa a Enrico Letta. Perciò è quanto mai normale che, sebbene non più concepito come un vero e proprio plebiscito personale, il Sì diventi inevitabilmente un giudizio di popolo, il primo veramente tale, sul Golden boy.

D’altronde il sostegno riscosso da Barack Obama e la volontà di venire incontro a esigenze oggettive degli italiani, con l’eliminazione di Equitalia e il braccio di ferro con l’Europa, rappresentano atti obbligati per rendere più credibile una riforma costituzionale controversa e non facilmente comprensibile dal cittadino comune. Renzi, d’altronde, è abbastanza scaltro da capire che l’attendibilità del consenso referendario deriverà molto più dalla sua affidabilità personale, piuttosto che da una serie di modifiche che hanno trovato un fronte negativo ampio, esteso ed eterogeneo.

Guardando le cose per quello che sono, quindi, e non per quello che dovrebbero essere, il Sì e il No sono collegati direttamente, come avvenne per Charles De Gaulle in Francia nel secolo scorso, a una modifica della forma di Stato voluta perché ritenuta calzante con la leadership politica del segretario Pd. Si comincia a capire così anche perché il No è un giudizio democratico atteso con apprensione da una parte consistente dell’opposizione storica, quella di centrodestra, specialmente per capire se e in che misura esiste ancora nel Paese un bacino elettorale non populista che sia sufficiente per sfidare Renzi nel 2018. Anche perché, a ben vedere, mentre il M5S può interpretare il diniego alla riforma seguendo la “metafisica del No”, tanto efficacemente enunciata da Beppe Grillo con un afflato etico e mistico non privo, per altro, di una sua logica intrinseca; per il centrodestra invece questo No è un Sì alla possibilità di ripartire, dopo una legislatura tragica sotto tutti i punti di vista: prima la rielezione di Giorgio Napolitano, poi le larghe intese, quindi la condanna giudiziaria di Silvio Berlusconi e la scissione di Ncd, per finire alla conseguente nascita del Governo Renzi con il successivo consenso di Verdini.

Se dovesse vincere il No, d’altronde, la minoranza interna al Pd chiederebbe la testa del premier, e il centrodestra si attribuirebbe il merito della vittoria. In tal caso una conseguenza ragionevole è che la linea unitaria con la destra, sostenuta più da Toti che da Parisi, avrebbe maggiore corso, anche perché almeno un successo concorde sarebbe stato raggiunto e incassato. Viceversa, un’opposta vittoria del Sì avvantaggerebbe esclusivamente il M5S, elevandolo agli altari di unica opposizione frontale al centrosinistra, sulla base del fatto non trascurabile di un Renzi che continua a mietere consensi al centro, dividendo gli elettori di Forza Italia da quelli di Lega e Fratelli d’Italia.
Lo scenario è così incerto anche in termini percentuali, più o meno cinquanta e cinquanta, che la sfida referendaria diventa cruciale per il destino politico dell’Italia.

Segnatamente, per il centrodestra, la linea del No di Berlusconi punta proprio a trasformare il voto in un Sì deciso alla rifondazione unitaria dell’area moderata e conservatrice, tesi che, in caso di opposta vittoria del Referendum, confermerebbe la legittimità del Nazareno voluta proprio dall’ex Cavaliere. A oggi, dal punto di vista politico, gli elettori sono divisi in tre poli, esattamente un terzo ciascuno, spartiti tra Pd, centrodestra e M5S. Il perseverare nella disunione interna al centrodestra, incrementata da una certa distanza in questo momento tra Salvini e Parisi, è il miglior modo, anche senza l’Italicum, per il fronte berlusconiano per chiudere ufficialmente i battenti.

Se la Lega, attestata più o meno al 13 % rischia relativamente poco, Forza Italia ha invece tutto da perdere, finendo per essere una succursale insignificante di tipo centrista a un possibile partito della nazione di marca renziana, non a caso così definito in polemica con Forza Italia anche da Massimo D’Alema. In fin dei conti, attendendo di vedere cosa succederà nel mondo, e in primis se, come sembra probabile, Hillary Clinton trionferà negli States, chi vota il 4 dicembre Sì in Italia vota per Renzi; chi vota No, invece, o vota per Grillo oppure vota per un bipolarismo Cuperlo-Salvini, che può significare tante cose incerte e di sicuro soltanto il declino del progetto renziano.


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