Su passato, presente, futuro meglio Seneca che la retorica dell’estetica o del packaging, modello Digital Transformation! Parola che ho iniziato ad usare cinque anni fa e da allora l’ho pronunciata, letta e sentita talmente tante volte da avere smesso di comprenderne il significato e provare quasi un fastidio fisico ogni volta che la incontro in un articolo, in un tweet, in un post.
L’information Technology non è nuova a queste overdose letterali. Il settore in cui ho operato ed opero da oltre 25 anni, è stato un produttore bulimico di buzzwords come nessun altro. Le ultime in ordine di apparizione: ”Web 2.0” “Cloud” “Internet of things”, “ Big Data” “Smart”. Ed ora ecco la madre di tutte le parole d’ordine: “Digital Transformation”.
E’ questa La Manomissione delle Parole di cui scrive Gianrico Carofiglio: “Le parole servono a comunicare e raccontare storie. Ma anche a produrre trasformazioni e cambiare la realtà. Quando se ne fa un uso sciatto e inconsapevole o se ne manipolano deliberatamente i significati, l’effetto è il logoramento e la perdita di senso”. Per poi proporre una suggestiva – ma chi sa come realizzabile – soluzione: “…sottoporre le parole a una manutenzione attenta, ripristinare la loro forza originaria, renderle di nuovo aderenti alle cose”.
Intanto se volete provare a sentire l’ebbrezza del ‘vuoto semantico’ digitate la parola su Google: otterrete 8.920.000 proposte di lettura! Una vita che si si perde in uno sconfinato mare magnum di link e definizioni.
La prima segnalazione collegata alla domanda di ‘digital transformation’ su Google è un annuncio a pagamento della business school dell’Università di Bologna, la prima del mondo occidentale fondata nel 1088. Bononia Docet.
I risultati del QS University Ranking by Subject pubblicati nel marzo 2016 premiano l’Università di Bologna collocandola tra i primi 200 atenei al mondo. La ricerca di “Quacquarelli Symonds” valuta le performance di 4.000 università sul pianeta in 42 diversi ambiti scientifici. E sui i subject di Archaeology e di Veterinary Science – ad esempio, Bologna si classifica tra le prime 50 al mondo.
Dopo oltre mille anni non solo l’ateneo esiste ancora ma mantiene prestigio a livello internazionale!
Quello che è successo ad Alma Mater però non si ripete per la più antica banca del mondo, MPS, nata nel 1472 o alla Kodak, fondata nel 1888. Quello che accade nel mondo accademico non si ripropone in quello delle imprese.
Il patrimonio di conoscenza sembra più convincente e rassicurante: conosco molte università in difficoltà ma non me ne viene in mente una che abbia chiuso i battenti, mentre nel mondo dell’impresa potremmo scrivere decine e decine di pagine con i nomi di prestigiose aziende che credevamo essere intramontabili e che invece sono stata spazzate via in pochi anni dal mercato. Anzi, la tradizione sembra si sia trasformata in un handicap: essere radicati al proprio passato può voler dire essere incapaci di comprendere come il vantaggio competitivo tradizionale possa rappresentare il più grande limite all’innovazione. Una pesante ipoteca in un momento di cambiamento che ha trasformato radicalmente e irreversibilmente interi settori industriali dalla musica, all’hospitality, dal retail alle banche. Per l’appunto.
Ed ecco che la parola “Digital Transformation “ diventa preliminare all’ ”Innovative Disruption”. Un termine tecnico coniato da Clayton Christensen, professore di Harvard, che descrive con molta chiarezza il processo attraverso il quale un prodotto o servizio, apparentemente semplici o basico, trasforma inesorabilmente il mercato riscrivendone le regole e ridisegnando le gerarchie. Un’innovazione dirompente travolge il passato, crea una nuova realtà economica che cambia i valori di riferimento, ridefinisce le leadership di mercato, di prodotto, di ruolo nell’ecosistema
Il legame col passato quindi si scontra con il futuro che non valorizza l’esperienza ma premia nuove competenze, consapevolezza e comprensione di ciò che avviene. Esperienza vs Competenza – Cambiamento vs Resistenza – Passato vs Futuro.
Le aziende in genere, per loro natura, sono portate ad innovare le proprie attività in modo incrementale, imparando dal passato. Servono invece visioni nuove attraverso le quali guardare al futuro per poter agire con efficacia. Il passato è staticità e in un contesto di totale discontinuità come l’attuale è garanzia di fallimento.
Nerio Alessandri fondatore di Technogym, un giorno mi ha detto “ se una cosa funziona vuol dire che è vecchia”. Credo che in questa frase ci sia l’essenza del suo incredibile successo.
Il passato è sempre più un valore che ha a che fare con l’orgoglio dell’imprenditore e/o della famiglia fondatrice che con il consumatore e/o gli azionisti: “ il futuro e di chi ha un grande passato”, “dal 1941 al tuo fianco” etc etc…Tutto questo forse non rappresenta più un valore di mercato, non è rassicurante, anzi qualcosa di cui preoccuparsi…
Gershon Mader non ha dubbi: “Se siamo il nostro passato, il passato frenerà il nostro pensiero e le nostre azioni; ma se siamo il nostro futuro, il futuro ci saprà ispirare e spingere i nostri pensieri e le nostre azioni. Abbiamo un passato, abbiamo un futuro e abbiamo una scelta … possiamo essere il nostro passato e avere un futuro o possiamo essere il nostro futuro e avere un passato “.
La più grande sfida che oggi imprenditori e aziende devono affrontare per cogliere al massimo le opportunità rappresentate del digitale non è quella tecnologica ma quella culturale, il coraggio di rompere con il passato…tutto quello che ti ha portato ad essere ciò che sei oggi non solo è irrilevante ma rischia di essere una trappola mortale. Torniamo a Seneca: La vita è divisa in tre tempi : ciò che è, ciò che è stato e ciò che sarà, tra queste è breve ciò che viviamo, il futuro è incerto, il passato sicuro
Il passato va onorato ma non ascoltato; il presente è il luogo in cui acquisire consapevolezza e agire, un tramite tra passato e futuro; il futuro è un copione nuovo ancora tutto da scrivere.
Quello che serve – su tutto – è la voglia di acquisire e la capacità di gestire l’enorme conoscenza che il digitale ci ha consegnato. Come sostiene il mio caro amico Luciano Floridi Professore di Filosofia ed etica dell’Informazione alla Oxford University, “l’educazione tradizionale mira ad aumentare la conoscenza, mentre il mondo di oggi è inondato da informazioni facilmente accessibili. Ci concentriamo sul “know-how” ovvero i fatti, invece di concentrarci sulla conoscenza il “know-that” ossia l’abilità al fare, che è la più difficile delle due sfide. Se promuoviamo una società di “know-how” promuoviamo una società di utenti e consumatori, invece che di progettisti e produttori. Dobbiamo insegnare alle generazioni future i linguaggi attraverso le quali si creano, si gestiscono e si consumano le informazioni, come la programmazione, la musica, la grafica” dobbiamo quindi porre l’accento sui “knowledge-maker” coloro che sanno come creare, progettare e trasformare le informazioni, la conoscenza”
Da Seneca a Floridi…