Due marziani travestiti da terrestri hanno conquistato nelle ultime ore i titoli delle cronache politiche sulle prime pagine dei giornali italiani, sia pure al ribasso, un po’ schiacciati dalle notizie obbiettivamente più importanti sul commiato del presidente americano Barack Obama dall’Europa, sulla squadra che sta allestendo negli Stati Uniti il successore Donald Trump, sul veto al bilancio dell’Unione Europea confermato da Matteo Renzi per ritorsione contro i Paesi che non vogliono accollarsi gli oneri dell’immigrazione e sui dati sempre controversi e minimali della nostra economia.
I due marziani sono, in ordine rigorosamente alfabetico, a destra Stefano Parisi, 60 anni compiuti il 12 novembre scorso, e a sinistra Walter Veltroni, 61 anni compiuti il 3 luglio.
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Stefano Parisi è un marziano perché, appena sgambettato, o scaricato, da Silvio Berlusconi come federatore di un nuovo centrodestra, o rassemblement, come l’ex Cavaliere francesizza ogni tanto i suoi progetti, veri o presunti che siano, ha polemizzato senza mandarlo del tutto a quel Paese, dicendosi anzi sicuro che “alla fine Silvio mi sosterrà”.
Ma “alla fine” in che senso? Quando? Dopo che, lasciando di nome o di fatto le redini del vecchio o nuovo centrodestra al segretario leghista Matteo Salvini, riperderà le elezioni perché “l’Italia – ha spiegato lo stesso Parisi – non è lepenista”? O quando Salvini, nonostante la testa dell’ormai ex federatore servitagli sul primo piatto a portata di mano, toglierà lo stesso a Berlusconi un pezzo di quel che gli è rimasto di Forza Italia, procurandosene le ira a quel punto inutilmente funeste? O quando il giro strettamente familiare di Berlusconi si sarà stufato di sentire Salvini polemizzare e ironizzare sulle aziende di famiglia, appunto, che condizionerebbero troppo l’ex Cavaliere, rimpiangerebbero i mesi del cosiddetto Patto del Nazareno e non vedrebbero l’ora di votare sì il 4 dicembre alla riforma costituzionale targata Matteo Renzi? Potrei continuare con le domande, ma credo che bastino e avanzino queste.
Berlusconi, si sa, è imprevedibile. E dalla sua imprevedibilità, che significa anche capacità di spiazzare avversari e alleati, amici e nemici, è riuscito spesso a trarre vantaggio. Ma anche l’imprevedibilità, come la fortuna, è volubile.
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Ciò che Stefano Parisi, con una signorilità alla quale forse il suo interlocutore non è abituato, ha evitato di rinfacciare a Berlusconi, che praticamente gli ha rimproverato di non sapere o volere andare d’accordo col pur necessario Salvini, è l’imboscata politica tesagli sabato mattina con una lunga intervista al Corriere della Sera. Che sembrava un messaggio, un avvertimento, chiamatelo come volete, diretto al raduno leghista di quello stesso giorno a Firenze.
In quell’intervista Berlusconi aveva avvertito Salvini che non si può aspirare né a guidare una coalizione né a vincere facendo polemiche a tutti i costi. Ma Salvini, per tutta risposta, sentendosi forte anche della presenza accanto a lui del governatore forzista della Liguria Giovanni Toti, di cui – ripeto – non ho ancora capito se sia rimasto consigliere politico di Berlusconi, aveva gridato ancora più del solito. E, oltre a vantarsi di “mettere la faccia” nella scalata alla leadership della coalizione, aveva chiesto al suo “popolo” plaudente “chi fosse mai Mattarella”: sì, proprio lui, Sergio Mattarella, il presidente della Repubblica, al quale Berlusconi aveva fatto visita al Quirinale garantendogli “senso dello Stato e di responsabilità” –parole ripetute nell’intervista- in caso di crisi di governo per effetto di una vittoria del no referendario alla riforma costituzionale. Un no cui dovrebbe invece seguire, secondo Salvini, in versione padana dell’americano Trump, un ricorso precipitoso alle urne, anche con il controverso Italicum per la Camera e il tagliuzzato Porcellum per il Senato, come vengono comunemente chiamate le leggi elettorali ora in vigore.
Il povero Parisi, travolto dalle sembianze terrestri assunte nel raduno padovano dei suoi amici quasi interamente forzisti, aveva visto in quel comiziaccio di Salvini una sfida insopportabile proprio a Berlusconi, decidendo così di precisare che “noi non siamo quella cosa lì” di Firenze. Precisazione che poi gli sarebbe costata il sostanziale licenziamento da federatore, o non si sa più come chiamare quel generico e volatile “ruolo” di cui Berlusconi ha parlato scaricando il manager e mancato sindaco di Milano davanti ai microfoni di Radio anch’io. Avranno esultato –immagino- il solito Renato Brunetta e l’altrettanto solita Daniela Santanchè, appena espostasi del resto con un’intervista in cui contestava a Parisi proprio la sconfitta a Milano, e quindi la possibilità di essere preso sul serio.
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L’altro marziano, il mio amico Walter Veltroni, è approdato nel salotto televisivo di Lilli Gruber per annunciare il suo deciso e convinto sì referendario alla riforma costituzionale, pur riconoscendone i limiti ma soprattutto pur avendo qualche ragione di giusto risentimento verso il nuovo corso del partito –il Pd- da lui fondato nel 2007 e diretto solo per poco più di un anno, vittima nel febbraio del 2009 del solito gioco delle correnti.
Un uomo di 61 anni soltanto, con le sue esperienze politiche alle spalle, anche di governo, e senza la spocchia – lasciatemolo dire – di certi predecessori e successori, di cui non faccio i nomi perché già sin troppo noti, poteva ben aspettarsi da Renzi qualcosa di più dello spazio domenicale lasciatogli sull’Unità di conio appunto renziano, ora diretto da quel simpatico galantuomo di Sergio Staino. O poteva pur unirsi, con il calcolo della solita astuzia politica, al silenzio quasi ermetico adottato di fronte al referendum da Romano Prodi, di cui peraltro Veltroni è stato vice presidente del Consiglio nel primo, sfortunato esperimento governativo dell’Ulivo.
Invece il marziano Veltroni ha gridato alto e forte il suo sì referendario, forse ispirando a Staino la felice vignetta comparsa la mattina dopo sull’Unità, in cui Sergio grida al compagno Molotov: “Se vuoi far fuori Matteo devi farlo dentro il partito, non aiutando Grillo, Berlusconi e Salvini”. Come sta appunto avvenendo in quella specie di congresso occulto del Pd che è diventato il referendum del 4 dicembre. Dove molti forse si sono venduti la pelle dell’orso prima di averlo ucciso.