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Cosa deve fare l’Italia contro Isis. Parla Vidino

“In Italia siamo all’anno zero per quel che concerne la prevenzione della radicalizzazione: a fronte di un fenomeno numericamente ridotto rispetto agli altri Paesi europei, ancora non si diffonde in modo adeguato la cultura della prevenzione e un’approfondita strategia di deradicalizzazione”. Parola di Lorenzo Vidino, docente e direttore del Programma sull’estremismo presso il Center for Cyber and Homeland Security della George Washington University, membro della commissione di studio sul fenomeno radicalizzazione ed estremismo jihadista presso Palazzo Chigi.

Quali possono essere gli effetti di breve, medio e lungo periodo derivanti dalle operazioni di Mosul e Raqqa?
Fare previsioni su quanto sta accadendo in quella parte di mondo è un lavoro complesso e coinvolge varie dinamiche. Guardando allo scenario siriano e iracheno, possiamo supporre che lo Stato Islamico sia prossimo alla sconfitta. E’ probabile, però, che una volta sbaragliato, il gruppo terroristico ritorni a fare ciò che ha sempre fatto, ossia essere una forza di insurgency, dando luogo a forme di guerriglia tanto in Iraq quanto in Siria. Tale situazione porta a dire che difficilmente quei territori saranno pacificati. Pur perdendo la propria territorialità, l’Isis non scomparirà da quello scenario. L’idea del califfato, sotto il profilo ideologico e di proselitismo, non si dissolverà: il fattore “vendetta” potrà giocare un ruolo determinante sia per coloro che hanno preso parte alle operazioni militari sia che per coloro che si sentono legati da un punto di vista ideologico al Califfato.

Quale sarà l’evoluzione del fenomeno foreign fighter?
I foreign fighter unitisi nel corso del tempo all’Isis si sposteranno da quell’area non appena lo Stato Islamico avrà perduto il proprio dominio. Alcuni cadranno in battaglia, alcuni saranno fatti prigionieri ma tanti dei circa settantamila/ottantamila combattenti cercheranno una nuova collocazione. Alcuni si sposteranno nei Paesi limitrofi, come in Turchia (che potrebbe vivere seri problemi di sicurezza nei prossimi mesi), altri cercheranno aree in cui ricostruire un’identità territoriale attraverso la commistione con gruppi jihadisti locali (basti pensare al Sinai, alla Somalia o allo Yemen) ed altri ancora torneranno nei Paesi di origine, tanto in Medi Oriente quanto in Asia centrale o in Occidente. Assisteremo, dunque, a un ritorno di centinaia di soggetti agguerriti.

Quale peso assume la presenza occidentale nella regione sotto il profilo della spinta a radicalizzarsi?
Premesso che si parla di processi individuali – differenti di caso in caso – è chiaro che da sempre i gruppi jihadisti (oggi Isis e prima Al-Qaida) contestualizzano la componente geopolitica nella visione di un complotto globale, che coinvolge l’Occidente, gli sciiti, i regimi sunniti corrotti e autoritari, con il fine di distruggere il vero Islam. A riprova dell’esistenza di tale complotto, i movimenti terroristici fanno leva proprio sulla presenza di truppe occidentali in territorio islamico, anche nel caso di interventi puramente umanitari. Basti pensare che all’epoca dell’intervento americano in Somalia, quella presenza a scopo puramente umanitario veniva interpretata nella propaganda jihadista proprio in chiave di conquista.

Quali aree del mondo possono rappresentare un motivo di preoccupazione per la diffusione di gruppi terroristici e della loro attività di radicalizzazione?
Le aree in assoluto più pericolose si trovano al di fuori dell’Occidente, in territori con evidenti problemi di governance, come ad esempio nel Maghreb, nel Sahara, nel nord della Nigeria o anche in Somalia, in Sinai e nello Yemen, senza dimenticare alcune aree del Pakistan e dell’Afghanistan. Sono questi i contesti “più caldi” e a maggior rischio di radicalizzazione. In ogni caso, l’ideologia jihadista è stata propagandata a livello globale, persino in luoghi in cui si sarebbe ritenuta improbabile la diffusione dell’estremismo islamico.

Vi sono in Europa aree più pericolose di altre?
Negli ultimi due anni si è visto come la Francia, il Belgio e il mondo francofono europeo in senso più ampio siano stati i Paesi maggiormente interessati da fenomeni di estremismo. Destano però preoccupazione anche i Paesi scandinavi, per il fatto che nazioni relativamente piccole – come la Svezia o la Norvegia – a fronte di percentuali abbastanza elevate di soggetti radicalizzati, presentino una comunità di law enforcement e intelligence significativamente piccola, non sempre in grado di assicurare la giusta attività di contrasto.

Esistono dei modelli di riferimento o comunque delle differenze di carattere socio culturale, che cambiano di Paese in Paese, e che spingono verso la radicalizzazione?
Nel corso del tempo si è visto come la radicalizzazione abbia preso piede in tutti i Paesi occidentali, indipendentemente dal modello culturale di riferimento. Oggi si pensa alla Francia come a una nazione che sta vivendo una fase particolarmente problematica: il modello della laïcité e della secolarizzazione forte sono sotto attacco. Detto ciò, sappiamo che anche solo dieci anni fa la Gran Bretagna era considerata il principale target del terrore, sebbene vigesse un modello sociologico totalmente opposto, caratterizzato dal multiculturalismo e da un’ampia autonomia riconosciuta alle autorità religiose.

Il processo di fidelizzazione, le motivazioni che lo determinano e i fattori endogeni che lo agevolano sono differenti tra Europa e Stati Uniti?
Negli Stati Uniti si è sempre pensato che il problema della radicalizzazione non esistesse, considerato l’alto tasso di integrazione delle minoranze e il buon livello di tolleranza. Le comunità islamiche, infatti, risultano ad oggi ben integrate e non soffrono delle limitazioni percepite in molti Paesi europei. Ciò nonostante, seri problemi di radicalizzazione sussistono anche negli Usa, non più considerati un’isola felice. Episodi come quello di Orlando, San Bernardino, Boston o Chattanooga – per citare alcuni degli attacchi più recenti – sono stati perpetrati da cittadini di fede islamica cresciuti negli Stati Uniti. Questo discorso vale anche per il Canada, altro Paese spesso considerato un vero e proprio modello di integrazione, che in realtà non risulta immune da fenomeni di estremismo.

La spinta verso l’estremismo può essere considerata un fattore endogeno di alcune fedi religiose o trova la propria ragion d’essere in circostanze avulse dalla componente fideistica?
Non esiste un monopolio da parte di una fede quando si parla di radicalizzazione. Nella congiuntura storica attuale i fenomeni di estremismo prendono vita nell’ambito di alcune interpretazioni estreme dell’Islam. Se avessimo avuto questa conversazione quattro secoli fa, probabilmente sarebbe stato il Cristianesimo a essere considerato una religione “problematica”. Tutti i testi religiosi possono avere una differente interpretazione in base alla chiave di lettura che si vuole utilizzare; questo vale anche per testi cristiani o ebraici ecc. Oggi nell’Islam si è diffuso un movimento globale di significativa importanza che propone un’interpretazione letteralista della fede e che – nel perseguimento dei propri obiettivi – si prefigge di utilizzare la violenza.

Quanto pesa in Europa il fattore identitario come elemento aggregante e facilitatore dei processi di estremizzazione?
Nelle comunità di antiterrorismo e tra gli studiosi di sociologia vi sono dibattiti incentrati sui processi di conoscenza e avvicinamento alla fede: ci si chiede se una maggiore conoscenza della fede (da quella islamica a quella cristiana ecc.) possa evitare il radicalismo. E’ questo l’approccio di alcuni Paesi mediorientali in cui si ritiene che lo studio approfondito dell’Islam possa disincentivare l’estremismo e le interpretazioni tendenziose alla base del terrorismo. Ciò si rivela esatto solo in parte: abbiamo esempi di casi in cui la radicalizzazione ha preso piede in soggetti senza alcuna conoscenza della fede islamica ma anche esempi di casi in cui la spinta verso la radicalizzazione si è basata su una puntuale conoscenza dell’elemento fideistico.

In che modo si può evitare che l’appartenenza religiosa diventi la miccia per l’innesco dei processi di radicalizzazione?
Da un punto di vista occidentale da tempo si verifica nei confronti delle comunità islamiche la tendenza a considerare il cittadino di fede musulmana unicamente alla luce della sua appartenenza religiosa, ignorando le tante altre componenti identitarie che lo contraddistinguono. Questo appiattimento può portare a gravi conseguenze. Sarebbe più opportuno considerare ogni singolo cittadino non solo in base al proprio credo.

Come procede il lavoro della commissione di studio sul fenomeno radicalizzazione ed estremismo jihadista in Italia? In che modo si affronta il dibattito sui fenomeni di radicalizzazione e deradicalizzazione?
Si può dire che in Italia siamo all’anno zero per quel che concerne la prevenzione della radicalizzazione: a fronte di un fenomeno numericamente ridotto rispetto agli altri Paesi europei, ancora non si diffonde in modo adeguato la cultura della prevenzione e un’approfondita strategia di deradicalizzazione. Esiste un sistema repressivo/poliziesco tradizionale, che è davvero efficace, al quale va affiancato lo sforzo sui temi della prevenzione. Questo è uno dei task fondamentali della commissione. Si avverte all’interno della comunità italiana dell’antiterrorismo l’esigenza di avere un orientamento più inclusivo verso il tema della prevenzione, superando l’approccio classico, efficace ma incompleto. Al momento esiste un disegno di legge in fase di studio in Parlamento, rivolto all’introduzione di una strategia più articolata. La commissione presso Palazzo Chigi procede parallelamente, cercando di fornire delle raccomandazione valide e di vedere se l’esperienza accumulata in altri Paesi europei possa offrire spunti su come muoversi in Italia. Per far fronte a un problema così delicato, si cerca di reperire le giuste risorse e di mettere intorno allo stesso tavolo una serie di attori – sia pubblici che privati – e questo non è sempre facilissimo.

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