Se Clint Eastwood vi ha già fatto commuovere e riflettere (o riflettere e commuovere, nell’ordine che preferite) con “Gran Torino” e “American Sniper”, non potete perdere il suo “Sully” uscito da tre giorni anche nei cinema italiani. Stavolta Eastwood è regista e produttore, mentre l’interprete principale è un Tom Hanks sensazionale per autocontrollo, misura, intensità.
Prendetevi una pausa dall’isteria referendaria e postreferendaria: ne vale davvero la pena. Anzi, la distanza tra i valori americani – umani e civili – del film e la nostra farsa quotidiana in Italia è un grande aiuto per recuperare il senso delle proporzioni, scuoterci dal provincialismo e la grettezza in cui siamo immersi, e ricordarci che nel mondo – per fortuna – c’è anche altro.
La storia è tanto vera quanto nota: nel 2009, il pilota di linea Chesley “Sully” Sullemberger, appena decollato dall’aeroporto La Guardia di New York al comando di un aereo con a bordo 155 passeggeri, deve con il suo co-pilota far fronte a una situazione estrema: a causa di un “bird-strike”, cioè di uno stormo di uccelli che si infila in entrambi i motori, il suo AirBus rischia di schiantarsi. Sully e il co-pilota hanno appena 208 secondi, non uno di più, per valutare le alternative, e capire se c’è tempo di tornare in aeroporto. Non c’è. Con un’operazione ai limiti dell’impossibile, allora, decidono un ammaraggio d’emergenza sul gelido fiume Hudson. In un miracolo di concentrazione e precisione, l’aereo non si schianta. Nei successivi 24 minuti, una corale operazione di soccorso (sommozzatori, unità navali e aeree, ecc.) completa l’opera, portando in salvo tutti i viaggiatori.
Ma questo è solo l’inizio del film, lo spunto di partenza. In realtà, il cuore del lavoro di Eastwood è nella ricostruzione della grottesca indagine tecnica in cui la compagnia aerea e le autorità di trasporto cercano di dimostrare che Sully ha compiuto una scelta avventata, che sarebbe potuto rientrare in aeroporto, che non è un eroe ma uno che ha messo a rischio tante vite. Non svelo di più, e lascio ogni sorpresa alla visione del film.
Tra mille spunti che la visione del film suscita, ne evoco tre.
Primo. Al centro c’è l’individuo, anzi due individui, il pilota e il co-pilota. Il fattore umano contro la burocrazia e le furbizie legali, la responsabilità individuale e il dovere contro le chiacchiere, gli uomini veri contro i fantocci e la nevrastenia mediatica. Qui sta il cuore e lo spirito davvero americano del film: un individuo padrone di sé, concentrato e competente, può compiere imprese straordinarie, al di là di qualunque immaginazione.
Secondo. Una società che funziona è quella in cui, oltre all’”eroe”, c’è una molteplicità di figure che fanno il loro dovere. Guardate, dopo l’ammaraggio dell’aereo, il modo meraviglioso in cui Eastwood racconta il lavoro della torre di controllo, delle unità di soccorso, delle forze navali e di polizia, dei medici, di tutti quelli che portano il loro contributo al salvataggio dei passeggeri.
Terzo (e qui c’è l’Eastwood più grande: quello che attacca la “pussy generation”, le “fighette”, che rompe le ossa all’establishment scegliendo Trump): il grande Clint ci ricorda che occorre rispettare le regole ma diffidare sempre delle istituzioni, dei “corpi collettivi”, delle burocrazie. Da “destra”, mi ha fatto ripensare a un leggendario antico monito di Graham Greene, in uno dei suoi romanzi. Cito a memoria e non traduco, perché l’italiano, ahinoi, mal si adatta a questo genere di concetti: “States, institutions, parties betray: a moral action can only be individual, and, as a consequence, limited and fallible…”.