La fase confusa, agitata e preoccupante che la politica sta attraversando in questi giorni non sarà breve. La crisi di governo attuale non è l’epilogo di normali incomprensioni tra i partiti o nei partiti, ma è molto di più. È figlia di errori e di omissioni di un capo del governo, di un partito, di una coalizione che immaginavano di tenere l’Italia in pugno per il solo fatto di contrapporre nuovo a vecchio, amico a nemico, allargando il solco tra opposte fazioni nel partito, creando artificiosi contrasti con l’Unione Europea, con i sindacati, con il mondo della scuola, con il mondo del lavoro e del pubblico impiego, con i pensionati.
La crisi d’oggi segna la fine di un percorso inconcludente, sterile e velleitario iniziato nel 1992: i risultati scarsissimi sono sotto gli occhi di tutti, con i referendum di Mario Segni, che portarono prima alla abolizione della preferenza multipla e poi alla modifica sostanziale del sistema elettorale, da proporzionale in maggioritario. Oggi muore un’ipotesi vaga, senza contenuti, di cambiamento/rinnovamento della politica italiana nata in quel tempo e che non ha visto realizzate le buone intenzioni di crescita, sviluppo, benessere, modernizzazione dell’Italia. La modifica della sola legge elettorale non poteva essere e non potrà essere la scorciatoia, per rimettere sui giusti binari la vita politica e istituzionale del Paese.
Ci vuole molto di più, e nel molto di più ci sono idee, programmi, linee politiche, organizzazione, moralità pubblica. Residuali gruppuscoli, scaturigini dei partiti storici artefici della costruzione della democrazia repubblicana, hanno fallito miseramente, confondendo l’interesse generale con l’interesse di fazione, se non addirittura personale. Il parlamento, talvolta, ridotto più a chiassoso mercato che a luogo nobile della formazione delle leggi. Sarebbe il caso di esaminare l’attività legislativa del parlamento per capire quante leggi di iniziativa parlamentare sono state approvate negli ultimi anni. Adesso in gioco però c’è un difficile tornante da superare, che non riguarda il posizionamento di qualche partito, di ex ministri, dello stesso presidente del consiglio, ma il futuro degli italiani, caratterizzato anche da soglie elevate di povertà e quasi povertà.
Il NO al referendum costituzionale ha vinto, perché col voto è stato espresso in forma evidente anche il disagio di tanti italiani, costretti a fare i conti ogni giorno con salari e pensioni insufficienti, che provocano paure e preoccupazioni. A questi cittadini bisogna dare sostegno, la politica non può abbandonare a sé stessa una consistente fascia di società che cresce inesorabilmente. Le forze politiche mettano in campo grande senso di responsabilità, ricercando con caparbietà l’unità, pur nella diversità delle loro culture, nella speranza di riuscire a costruire davvero il bene comune, accrescendo capacità di ascolto e di risposta.
E allora si dimostri che esiste ancora sintonia con il Paese, legame concreto e non fittizio con la gente, e che c’è la volontà di riprendere tutti insieme un cammino ordinato e convinto, anche se irto di difficoltà, che guarda esclusivamente al buon governo di tutti.