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Perché l’unità fra cristiani passa per il dialogo

Cinque secoli, tanti sono trascorsi da quando, nel 1517, Martin Lutero rese pubbliche a Wittenberg le sue 95 tesi contro la Chiesa di Roma, il suo malcostume, la sua corruzione, annunciando l’urgenza e la necessità di una riforma, che tale divenne per antonomasia, anche se nei fatti rimase senza esito concreto, riducendosi a rompere la storica unità dei cristiani e contrapponendo alla esistente una nuova Chiesa alternativa, anzi una serie di nuove Chiese, tutte riformate, ma al tempo stesso particolari e autonome nel ridisegnare la propria organizzazione e i propri rituali.

Non era certo la prima volta che i costumi rilassati e gaudenti della curia papale accendevano lo sdegno e la rabbia di piccole o grandi comunità di fedeli desiderose di testimoniare la propria fede sincera nel rigoroso rispetto di un’obbedienza al magistero evangelico che anticipasse nelle vita terrena le pratiche di una santità cui aspirare con ogni sforzo e sacrificio: anzi sempre più si erano diffuse nel corso dei secoli comunità monastiche o confraternite monacali o fratesche sorte per iniziativa di singoli predicatori che dettavano regole di vita alle quali i seguaci dovevano puntualmente attenersi e che si fondavano sulla fuoriuscita dalla società civile e sulla rinuncia ai suoi beni materiali e ai piaceri mondani, sul celibato, la povertà e la preghiera.

Si erano consolidati nel tempo modi diversi di essere cristiani, che, senza escludersi reciprocamente, allargavano la distanza che separava i costumi di vita, i comportamenti e i valori dei fedeli, e instauravano conseguentemente un pluralismo che resisteva tollerante alle tentazioni egemoniche, che pur attraversavano il dibattito sollecitando scelte più radicali e incontrovertibili, evitando ogni sorta di ortodossia che escludesse dalla vita comunitaria in quanto eretiche le posizioni che contraddicevano o soltanto si discostavano dal magistero della Chiesa e della sua clericale gerarchia, senza perciò provocare uno scisma.

Resisteva più forte la difesa dell’unità dei cristiani, l’attaccamento a quel sentimento di fratellanza universale che era a fondamento dell’idea stessa della Chiesa: tra spinte centripete e iniziative centrifughe la storia più che millenaria della cristianità era riuscita ogni volta a ricomporre con un continuo sforzo di mediazione e di integrazione la sua sostanziale unità, anche di fronte al progressivo disgregarsi dell’unità culturale della classicità latina e delle sue istituzioni civili.

Ci furono scontri drammatici e clamorosi con autentiche esplosioni di ferocia e violenza che lacerarono la vita dei comuni medievali, spesso sfociando in episodi di autentica guerra civile, ma, nonostante l’intreccio sempre più ingarbugliato tra le vicende delle successioni al soglio papale e gli interminabili conflitti tra guelfi e ghibellini o le sfide perenni tra le grandi famiglie delle signorie italiane, la volontà di andare oltre alla ricerca del bene comune, come ha magistralmente raccontato Francesco Bruni (La città divisa, 2003), riuscì sempre a prevalere suggerendo imprevedibili vie d’uscita, rinnovando fragili ma duraturi compromessi.

Si fatica, dunque, a capire come mai le tesi del sanguigno frate agostiniano, non così originali o innovative, sorprendano la vigile prudenza della Chiesa che ne sottovaluta a tal punto la forza fino a lasciarle dar origine a una spaccatura che, se ha mille giustificazioni storiche, avrebbe potuto ancora una volta essere superata con un po’ di spirito di adattamento e di buona volontà, come infatti molti dei contemporanei a lungo sperarono, mentre, tra ammonizioni e scomuniche e rigide petizioni di principio, travolse gran parte d’Europa, rafforzandosi nel conflitto tra le nascenti nazioni, e alla fine sancì definitivamente la fine dell’unità spirituale del continente con conseguenze che durano tuttora.

In questa ricorrenza cinquecentenaria, i fatti di allora inducono a rinnovate riflessioni ecumeniche, tanto più che ben più dolorose e profonde divisioni religiose scatenano scontri e violenze terribili in questo confuso nostro mondo di oggi. Il tempo della modernità ha progressivamente sancito la separazione dell’etica dalla politica, la fine di ogni potere temporale della Chiesa, il primato di una spiritualità che arricchisce la vita interiore individuale e al tempo stesso orienta i comportamenti sociali verso la misericordia e la carità; ha persino isolato nel tempo l’esibizione del potere e dei suoi simboli più sfacciati e contemporaneamente assottigliato le fila dei fedeli, chiedendo loro una più sincera e confidente lealtà coi valori dei vangeli: perché mai in questo diverso contesto i cristiani dovrebbero continuare ad accapigliarsi su questioni che appaiono sempre più marginali, se non addirittura di dettaglio?

Non potrebbe essere tempo, finalmente, di dare maggiore importanza a tutto quello che gli uomini di buona volontà condividono rispetto a quanto invece distingue, e certo non solo superficialmente, la dottrina, i rituali, l’organizzazione e i ruoli?

A chi guardi non distrattamente alle esperienze della religione, e di quella cristiana soprattutto, non può essere sfuggito che i segnali più convincenti e forti della presenza della Chiesa parlano di accoglienza e di solidarietà con parole più nitide e rassicuranti di quando si arrischiano nell’esclusione o nella condanna, o che l’invito evangelico a non giudicare – anzi a fare a meno di ogni pregiudizio – ha riacquistato un’attualità e una pregnanza che aveva da tempo smarrito, tanto da rendere paradossalmente inattuali le campagne di ogni “esercito della salvezza”.

Ritrovare le comuni radici cristiane della tradizione culturale europea, il profondo sostrato umanistico di questa civiltà, non può ridursi, come troppe volte è accaduto, a ostacolare lo sviluppo, il progresso, il dialogo, la convivenza, quando, senza grandi sforzi, potrebbe agire nel senso contrario, e la ricorrenza cinquecentenaria si trasformerebbe così nella straordinaria occasione di ricostituire le ragioni dell’unità senza cancellare il pluralismo delle scelte, preparandoci solidali ad affrontare il confronto con le tradizioni e le culture con le quali, negli anni a venire, non potremo sottrarci a dialogare, confidando che sia la forza a poter chiudere i conti.


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