La diatriba referendaria sul lavoro promossa dalla Cgil è insieme anacronistica e pericolosa. E non solo perché essa sollecita una società insicura ad arroccarsi nelle vecchie tutele statiche, ma anche perché costringe a difendere un assetto regolatorio, quello del Jobs act, che è nato vecchio e non ha incentivato la maggiore occupazione, tutta affidata ai 18 miliardi di incentivi.
Il confronto concreto tra imprese e lavoratori, come testimoniano il nuovo contratto dei meccanici e le quotidiane intese nelle aziende e nei territori, si è già ampiamente spostato dal formalismo giuridico alla sostanza delle nuove sicurezze, fatte di apprendimento permanente e di prestazioni sociali integrative. La quarta rivoluzione industriale, a differenza della terza, sta spazzando via tutto il novecento ideologico che aveva avuto come premessa la produzione seriale nei grandi opifici e la massificazione del lavoro.
La sfida con le macchine non si gioca certo sul piano delle regole ma piuttosto su quello dell’effettivo accesso da parte di ciascun lavoratore alle abilità e alle competenze che lo possono rendere sempre occupabile. Si tratta di un diritto promozionale che i contraenti dovrebbero essere portati ad implementare nel nome di un interesse convergente, tanto quanto la tutela in caso di licenziamento e’ stata espressione di un conflitto considerato immanente. Eppure non vi è art. 18 con tanto di reintegrazione che possa ripristinare un posto di lavoro che si è consumato. Né è possibile immaginare nei nuovi laboratori che giorno dopo giorno sostituiscono la vecchia fabbrica una coabitazione forzosa.
Con il Jobs act il governo ha voluto dare all’Europa, prima ancora che all’Italia, un segnale di discontinuità rispetto alla vecchia sinistra limitando ma non cancellando la sanzione della reintegrazione. Con il corollario di una rigida distinzione tra lavori dipendenti e indipendenti che le nuove tecnologie tendono invece a confondere. Ottimo segnale ma poca sostanza perché quando un imprenditore chiede al suo consulente del lavoro, prima di assumere, se potrà, pagando si intende, risolvere il rapporto di lavoro rivelatosi incompatibile lo vedrà allargare le braccia in un gesto di speranza che non garantisce certezze. Quelle certezze che sono ovunque considerate la premessa della propensione ad assumere. La soluzione c’era ed era stata convenuta nelle bozze del decreto delegato. Come in Germania e in Francia, il datore di lavoro di lavoro condannato alla reintegrazione avrebbe potuto optare per un adeguato indennizzo. Ma, all’ultimo momento, Renzi preferì un’intesa proprio con quello stesso Speranza che oggi sposa il quesito referendario. A dimostrazione del fatto che le riforme a metà non funzionano né nella dimensione reale né in quella del teatrino politico.