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Tutti i balletti di Berlusconi, Franceschini, Prodi, Renzi e Salvini sulla legge elettorale che non c’è

Se il presidente uscente degli Stati Uniti e il capo del governo giapponese hanno voluto e potuto incontrarsi alle Hawai stringendosi la mano senza rinfacciarsi l’uno l’altro Hiroshima e Pearl Harbor voi pensate che, fatte le debite proporzioni, potranno mai incontrarsi e stringersi la mano in Italia Matteo Renzi e Massimo D’Alema, o Renzi e Pier Luigi Bersani, o Roberto Giachetti e l’aspirante segretario del Pd Roberto Speranza, offesosi a morte per quella “faccia come il culo” datagli di recente dal vice presidente della Camera e compagno di partito? Ne dubito, per non dire mai.

Il Partito democratico chiude questo maledetto 2016 come peggio, francamente, non poteva. Al suo interno è ormai lotta continua fra renziani e antirenziani, ma anche all’interno di ciascuno dei due schieramenti. La “contaminazione”, in senso negativo di infezione, fra ex o post-comunisti ed ex o post-democristiani di sinistra è l’unica cosa riuscita dell’operazione compiuta nel 2007 da Walter Veltroni. Che fu d’altronde il primo a subirne i danni, costretto dopo un anno e mezzo ad arrendersi al clima velenoso del nuovo partito dimettendosi da segretario. E guardandosi bene dal cadere nella tentazione, pur così diffusa fra i politici, di una rivincita o comunque di un ritorno. Ora egli fa altro. Basta guardarlo e sentirlo quando parla in televisione dei programmi che firma, o dei progetti culturali che coltiva, per capire quanto stia bene, decisamente meglio degli anni in cui doveva impiegare il suo tempo più a guardarsi attorno, o alle spalle, che guardare davanti.

Veltroni è l’unico che Renzi non sia riuscito o non abbia fatto in tempo a rottamare perché lui aveva voluto e saputo sfilarsi da solo rinunciando a poco più di 55 anni a ricandidarsi al Parlamento. E accomiatandosi dalla Camera con un discorso davvero toccante, che ebbi il piacere di ascoltare e commentare avendo peraltro accanto a me un nervosissimo amico di D’Alema. Nervosissimo, perché capiva che quella rinuncia ne avrebbe provocata un’altra, ma molto meno spontanea o più sofferta: quella dell’ex presidente del Consiglio soprannominato Baffino. Che in effetti rinunciò pure lui, senza però accomiatarsi da niente e nessuno, riservandosi di rimanere in gioco. Cosa che in effetti tentò di fare candidandosi di fatto al posto che oggi occupa nella Commissione europea, a Bruxelles, la pur meno esperta e nota compagna di partito Federica Mogherini.

A quella postazione D’Alema si propose di fatto con un libro sull’Europa che l’imprudente di Renzi si prestò a presentare in pubblico a Roma senza poi volere o riuscire, secondo le due scuole di pensiero formatesi sul tema, a mandare a Bruxelles l’aspirante alto commissario alla pur fantomatica politica estera dell’Europa. E l’aspirante deluso naturalmente se la legò al dito, per cui solo gli sprovveduti hanno potuto poi sorprendersi vedendolo impegnatissimo con gli avversari di Renzi a contrastare nel referendum del 4 dicembre scorso la riforma costituzionale. E a contribuire a bocciarla, sia pure in modo non decisivo, a meno che non venga in testa a D’Alema, per euforia da soddisfazione, di intestarsi tutti i diciotto punti percentuali e rotti di differenza fra i 19 milioni di no e i 13 milioni di sì.

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Ora però non è da D’Alema che Renzi deve guardarsi nel tentativo di sopravvivere politicamente alla “strasconfitta” referendaria, come lui stesso l’ha chiamata, salvando la segreteria del partito e persino tornando a Palazzo Chigi più forte di prima dopo un turno anticipato di elezioni. Nè deve guardarsi più di tanto da Bersani, sponsor di Speranza, o dai vari Michele Emiliano ed Enrico Rossi, governatori, rispettivamente, della Puglia e della Toscana, aspiranti pure loro a succedergli come segretario.

Renzi deve piuttosto guardarsi, all’interno della maggioranza uscente del Pd, dal ministro Dario Franceschini, pure lui di provenienza familiarmente democristiana. Di cui egli ha già avvertito in qualche modo il fiato politico sul collo quando gli ha preferito Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi. E poi quando si è trattato di fissare a Montecitorio il calendario per l’esame della nuova, ennesima riforma elettorale reclamata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella per rassegnarsi a sciogliere anticipatamente le Camere, come si aspetta Renzi. Che, avendo fretta, ha già posto sul tavolo la proposta del ritorno al sistema semi-maggioritario del collegio uninominale che porta il nome latinizzato dello stesso Mattarella. Esso è stato applicato dal 1994 al 2005, quando gli subentrò il cosiddetto Porcellum, di nome e di fatto, dell’allora ministro leghista Roberto Calderoli.

Alla Camera i non casualmente franceschiniani Ettore Rosato ed Emanuele Fiano, capogruppi del Pd, rispettivamente, in aula e nella commissione competente, d’intesa con grillini e berlusconiani hanno dato la precedenza al giudizio di fine gennaio della Corte costituzionale sulla legge valida per la stessa Camera e nota come Italicum.

Lì per lì Renzi ha finto di non vedere e non capire. Ma poi ha fatto uscire allo scoperto il capogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda e il presidente dello stesso partito Matteo Salvini per riaprire il discorso chiuso a Montecitorio. E sostenere che della legge elettorale si dovrà parlare fra i partiti già nelle “prossime ore” -ha detto Orfini- perché ad attenersi all’agenda della Corte costituzionale si perderebbe troppo tempo.

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Oltre al problema dei tempi, Renzi ha sollevato anche quello dei contenuti della riforma ritrovandosi d’accordo con i leghisti, come prima di Natale, sul ritorno al Mattarellum. A favore del quale ha appena speso la sua parola pure Romano Prodi in una intervista al Corriere della Sera.

Ciò ha spiazzato ed allarmato Berlusconi. Che pensava di avere aperto una grande breccia, sperando magari anche in un aiutino di Gentiloni, a favore del ritorno invece al sistema proporzionale della cosiddetta prima Repubblica, a lui più conveniente in questa fase politica perché non l’obbligherebbe a negoziare le candidature nei collegi uninominali con Salvini. Il cui potere contrattuale è cresciuto con l’emorragia elettorale di Forza Italia, a tal punto da far temere a Berlusconi una scalata politica della Lega alla guida di quello che fu il centrodestra, come se non bastassero le preoccupazioni che gli sta procurando l’assalto dei francesi di Vivendi alla sua Mediaset.


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