L’afflusso continuo e consistente di immigrati (sono entrati in Italia nel 2016 più di 180mila persone) sta portando al collasso il sistema di accoglienza conducendo inevitabilmente in un vicolo cieco la soluzione del problema.
La pura assistenza emergenziale non basta più e le condizioni di vita nei centri cosiddetti di “accoglienza” non sono delle migliori, talvolta anche per la disinvolta gestione di alcune “cooperative” che ne fanno un’occasione per lucrosi affari. Si dirà che ogni emergenza ha il suo prezzo, ma il combinato disposto del mancato rispetto degli impegni degli altri Paesi europei associato ai nuovi arrivi, pur frenati dalle condizioni climatiche, rischia di far mutare sensibilmente l’orientamento di un’opinione pubblica, come quella italiana, non pregiudizialmente ostile ai valori della solidarietà, ma che ritiene l’ordine pubblico e la sicurezza materia non negoziabile e percepisce nel magma dei fenomeni migratori elementi potenziali di grave pericolo. Il nostro Paese non ha subito gravi attentati, gli episodi criminali gravi sono stati limitati (e comunque è ingiusto equiparare tout court il fenomeno migratorio a quello del terrorismo), ma l’illegalità è però diffusa e crea insicurezza tra i cittadini, in particolare nelle fasce più povere. D’altra parte, come era facilmente prevedibile, l’idea (semplicistica) di risolvere il problema dei profughi occupandoli in lavori socialmente utili ha perso molto del suo appeal ed è stata ridimensionata anche da chi l’aveva enfatizzata.
Siamo indubbiamente di fronte a una svolta del governo Gentiloni di quasi 180 gradi che ci riporta al tempo degli esecutivi guidati da Silvio Berlusconi con Bossi e Fini. L’arrivo di Marco Minniti agli interni porta con sè un brusco richiamo alla realtà, di fronte alla pericolosa sottovalutazione delle conseguenze prodotte dall’incapacità di distinguere (e scegliere) tra chi ha diritto allo status di rifugiato e chi deve essere rimpatriato. La nuova linea del governo si pone esplicitamente l’obiettivo di aprire, utilizzando anche l’esercito, nuovi Centri di identificazione per raddoppiare le espulsioni degli “irregolari”, che secondo calcoli realistici sono più o meno l’80% del totale degli immigrati.
Non è un caso che il governo, consapevole delle enormi difficoltà che si frappongono alle espulsioni dichiara di voler istituire un solo grado di giudizio (inappellabile) per la concessione del diritto di asilo, di rendere effettivamente operativi gli accordi con i Paesi da cui vengono gli emigrati che sono stati (inutilmente) espulsi, di pattugliare le coste libiche in accordo col governo di Tripoli.
Un approccio non lontano nella sostanza dalle politiche di “respingimento” di cui fu protagonista Roberto Maroni, lontano predecessore di Minniti al Viminale. La sinistra del Pd e l’area massimalista, oltre che il mondo cattolico e l’operoso sistema impegnato nella macchina politico-assistenziale “dell’ emergenza immigrazione”, hanno di che preoccuparsi. Con tutta la buona volontà del governo Gentiloni limitarsi a una politica graduale, ancorché efficace, di recupero del controllo dei flussi migratori attraverso le espulsioni oggi è assai difficile per dire impossibile. E soprattutto non basterebbe in ogni caso. È indispensabile il blocco degli arrivi, essendosi rivelato impraticabile il blocco delle partenze.
Ciò si potrà ottenere solo raggiungendo l’intesa con uno o più governi nordafricani per aprire centri di accoglienza, di identificazione e di destinazione possibile (o respingimento al Paese d’origine) dove trasferire tutti coloro che oggi vengono giustamente soccorsi in mare e fatti sbarcare in Italia. Insomma, una versione più soft del modello di “contenimento” dei profughi concordato tra l’Unione europea e il presidente Erdogan, che potrebbe costituire al contrario un esempio virtuoso e trasparente di cooperazione internazionale.
Finché non saranno realizzati questi hubs sulle coste africane e continuerà a mancare la disponibilità degli altri Paesi Ue a farsi carico di quote significative di immigrati, la situazione in Italia sarà sempre più difficile da governare. Questo spiega a sufficienza le ragioni del cambiamento di rotta del governo. Il numero dei (presunti) rifugiati crescerà anziché diminuire e i malumori dell’opinione pubblica si dirigeranno verso Palazzo Chigi e contro i partiti della maggioranza. In vista di possibili elezioni questo non è il migliore degli scenari per il Pd e soprattutto Renzi, dopo il referendum, non può correre il rischio di perdere una seconda volta nel giro di pochi mesi. Sarebbe un ”uno-due” fatale. Questo mutamento di rotta ha aperto, come era prevedibile, nel Pd un nuovo fronte di dissenso tra maggioranza e opposizione che si è rapidamente esteso dal cento alla periferia.
A Milano il numero di immigrati accolti di recente nei centri di assistenza, ormai saturi, supera le quattromila unità. Di questi un migliaio è sfuggito a qualunque controllo. Il problema esiste oggettivamente e gli amministratori locali sono preoccupati. La spaccatura interna del Pd rischia però di destabilizzare la giunta, guidata dal sindaco Beppe Sala, un renziano ante litteram. Si è aperta una polemica pubblica tra le due anime del Pd tra chi, come il sindaco, si è schierato a fianco del governo per ridare impulso alle espulsioni di chi non ha diritto all’asilo e coloro che sono contrari. Tra questi spicca l’assessore Majorino, che è stato definito dalla collega assessora riformista Carmela Rozza “anima bella della sinistra”. Ma anche la vice sindaco Scavuzzo manifesta dubbi e perplessità in proposito. Questa forte dialettica interna al Pd ha creato le condizioni per la ripresa di iniziativa delle minoranze in Consiglio comunale. Si tratta di un’occasione da non perdere per Sala che deve allargare il consenso al governo della città. Ma è forse più importante per quella parte del centro destra che è determinata a uscire dall’irrilevanza e intende tornare a fare politica attraverso un confronto costruttivo sui contenuti tra forze diverse che si legittimano reciprocamente.