Se l’Italia può vantare un’attività trapiantologica eccellente per organizzazione, lo si deve a un uomo: il professor Nanni Costa, che dal nulla ha creato una rete sinergica, prima assente. Una rete nazionale, superando i localismi iniziali degli anni Ottanta e Novanta. Il Veneto è parte attiva del programma nazionale.
Giustamente, Zaia ha dichiarato di essere orgoglioso del lavoro fatto nei Centri Trapianto del Veneto (Padova, Verona, Vicenza e Treviso). Orgoglioso sia per i “numeri”, in aumento, sia per la qualità dell’assistenza erogata. Si pensi alle donazioni renali da viventi (consanguinei e no), si pensi alla fondamentale diffusione delle donazioni tra soggetti (donatore e ricevente) della stessa età (70 su 70, 80 su 80, 90 su 90) ecc. e ai trapianti multiorgano, che richiedono una perfetta organizzazione che coinvolge decine di persone.
Zaia ha fatto il suo dovere nel complimentarsi con le decine di medici e di sanitari veneti coinvolti nei trapianti. Se fossimo in lui, faremmo qualcosa di più: passeremmo dalle parole ai fatti, attivando un premio specifico, annuale, da riservare a questi medici-infermieri-tecnici, che sono un chiaro esempio di una sanità che funziona, senza badare a festività, ai carichi di lavoro settimanali, alle difficoltà operative quotidiane. Medici e infermieri che non solo fanno il loro lavoro, in silenzio, ma dedicano tanta parte del loro tempo libero a fare “promozione trapiantologica”, in giro per i vari paesi e le varie contrade del veneto. Grazie a questa azione informativa, le adesioni dei volontari potenziali sono cresciute di anno in anno e le “resistenze” (ideologiche o pseudoreligiose) si sono ridotte.
Potremmo farne di nomi di colleghi. Ci limitiamo a farne uno: Stefano Chiaramonte, veronese di Bionde, che è stato ed è l’artefice della trapiantologia vicentina, la cui storia è iniziata verso la fine degli anni Ottanta. Un medico “silenzioso”, ma costantemente “presente2. Senza di lui, non sarebbero mai stati fatti i trapianti a Vicenza, quelli da donatore “cadavere” e quelli da donatore vivente, delicatissimi sul piano psicologico e sanitario, per le implicazioni sulla vita e sulla psiche del donatore.
Ecco, noi pensiamo che sarebbe giusto – almeno una volta – che la Regione “celebrasse” le equipe trapiantologiche venete e che le valorizzasse. Ci sono tanti modi per dimostrare la gratitudine veneta a chi lavora in sanità. C’è un sistema, che identifica e premia il miglior medico ospedaliero e il miglior infermiere del mese e dell’anno. C’è la possibilità di un premio collettivo, da far scegliere all’equipe. C’è la possibilità di alleggerire i carichi di lavoro, con potenziamento di quell’organico, che è stato premiato.
Insomma, non premi in denaro, ma un “segno concreto”. Dalle parole di Zaia, ai fatti. Perché le parole “se ne vanno al vento” e i fatti restano.
In coda, alcune osservazioni sull’attuale gestione della sanità veneta.
Bene la riduzione numerica delle Asl/Ulss venete, che noi del mestiere auspicavamo da 21 anni. Male i criteri usati, che rendono inspiegabili (ad esempio) le 2 Asl vicentine e l’unica Asl veronese, a parità (quasi) di abitanti. Bene l’azienda-zero, per l’acquisto centralizzato delle grosse forniture strumentali e d’uso. Male la mancata definizione di una “gerarchia” degli ospedali, analoga a quella degli anni Settanta. Ospedali zonali, provinciali e regionali (all’interno di una stessa Asl) con chiara identificazioni dei compiti specifici riferiti da ogni singola realtà ospedaliera.
Un ritorno al passato? No, ma la necessità di far capire alla gente “chi fa cosa”, ossia le sedi appropriate ove ricevere cure generiche e cure specialistiche. Insomma, dare un chiaro ruolo a “ospedali periferici” (ad esempio Valdagno, Asiago, Pieve di Cadore, Trecenta, Isola della Scala ecc.); definire i punti nascita “garantiti al 100%” (ossia sicuri, per la presenza non solo dell’equipe ginecologica, ma anche della neonatologia), soprattutto tenendo conto di quanto successo nel 2015-2016, con l’attivazione di tanti contenziosi medico-legali a valenza ginecologica.
Una gerarchia ospedaliera, affiancata da una rete di poliambulatori. Zaia può pensare quello che vuole. Ma le liste d’attesa non sono eliminabili, in presenza di: organici medici e sanitari numericamente inadeguati; carichi di lavoro settimanale contrari al buon senso e alle regole europee; attività ambulatoriale effettuata in condizioni difficili (assenza di personale infermieristico o tecnico che affianchi i medici); il mancato coordinamento provinciale dei Cup; programmi software dei Cup non in grado di colloquiare tra di loro; mancata chiarezza sul ruolo specialistico delle strutture “convenzionate”, che, in tanta parte della Regione sono “essenziali”: si pensi a quelle di Peschiera, Negrar, Porto Viro, Occhiobello, Cortina, senza le quali ampie zone venete non avrebbero copertura ospedaliera adeguata.
Insomma, a Zaia diciamo: “Presidente, fatte le Asl nuove, adesso cosa ha intenzione di fare?”. Eccole alcune idee: una valutazione analitica delle piante organiche mediche e non mediche – specialità per specialità – in relazione ai carichi di lavoro (ricoveri, posti letto, ambulatori, interventi chirurgici, epidemiologia specifica ecc.). E, successivamente, piano “mirato di assunzioni”, che tenga conto delle patologie in atto e delle curve epidemiologiche legate all’invecchiamento, alla disabilità, alle patologie croniche invalidanti (neoplasie, diabete, patologie nervose su tutte).
Ancora, nuovo “patto con i medici ospedalieri veneti”, analogo a quello sottoscritto nell’estate 1992 dal dottor Giampaolo Braga (per la Regione) e le Ooss mediche (in testa Anaao e Cimo), in merito agli organici medici, al numero dei “punti di guardia”, alle regole sulla pronta disponibilità, medica e chirurgica. Un “nuovo patto”, tanto più necessario in assenza di contratti nazionali (dal 2009) e in assenza di nuovi standard ospedalieri, 34 anni dopo quelli di Donat Cattin. Già, hanno riformato (male) la scuola e la P.A. Ma la riforma del Ssn è del 1978: da allora, è cambiato il mondo e sono cambiate le patologie e le richieste sanitarie della nostra gente.
Ma, a chi interessa, tutto ciò?