Il fatto che Repubblica.it compia oggi 20 anni è la dimostrazione che ogni tipo di disputa tra conservatori e riformisti dell’informazione non ha ragione di esistere. Sul tema si è già detto fin troppo. Dai corsi universitari di giornalismo ai talk televisivi si è ampiamente dibattuto sul destino della carta stampata: morirà. Non c’è altro da aggiungere. È solo questione di tempo.
Il tema da affrontare oggi è un altro e riguarda non tanto il futuro dei giornali, quanto dei giornalisti.
Avevo dieci anni quando il quotidiano di Via Cristoforo Colombo iniziava ad esplorare la sua America, e in questo ventennio -che ha visto ogni testata cartacea tramutarsi anche (o esclusivamente) nella forma digitale-la professione è stata completamente rivoluzionata.
Ricordo che in una delle mie prime lezioni di giornalismo, il professore, un grande firma del passato, ci raccontava come funzionavano le redazioni. Sveglia verso le 9, si arrivava per le 10, 10 e 30, si leggeva il giornale e intorno alle 11 e mezza si faceva la riunione per del giorno dopo. Il cronista aveva tutto il tempo per andare in giro, cercare la notizia, fare domande, incuriosirsi e formarsi, farsi venire le farfalle nello stomaco, come fosse ogni giorno un appuntamento con un nuovo amore. Su molti giornali di carta stampata funziona ancora così, ma sono pochi, pochissimi-rispetto al mercato italiano- i fortunati che ancora riescono a vivere il lavoro dei sogni.
E cosa non si fa per inseguire un sogno? Precariato, orari disumani, paghe da fame o del tutto inesistenti. Stiamo parlando del giornalismo su carta, quello in via d’estinzione. Sull’online le cose si complicano. In aggiunta agli ostacoli appena elencati si somma anche la necessità di possedere –oltre alla padronanza della scrittura- una minima conoscenza del Seo, le nozioni sulle dimensioni delle immagini unite alla velocità della luce per battere la concorrenza. Poi uno si domanda perché Clark Kent fosse un giornalista…
Ma non tutti sono dei supereroi. Non tutti sopravvivono al gioco della selezione naturale in cui solo i migliori vanno avanti. Perché se è vero che il numero di giornali in grado di garantire uno stipendio è esiguo rispetto a chi vorrebbe scriverli, è vero anche che i giornalisti davvero qualificati sono altrettanto pochi.
Le università fondano l’insegnamento prevalentemente sulla teoria, inoltre prima che un ragazzo possa imparare davvero a scrivere un pezzo, deve prima subirsi tutta la tiritera: tra i racconti nostalgici dei prof. e i loro libri di avventure in giro per il mondo.
L’unica via plausibile restano le scuole di giornalismo, che formano bene e offrono buoni contatti con il mondo del lavoro, ma spesso frequentarle equivale a sborsare migliaia di euro. Così come i master.
A proposito di questi, ricordo con piacere le lezioni di uno dei mie professori, caposervizio di Repubblica.it. Sicuro sostenitore dell’informazione sul web, ci spiegava come gli investimenti pubblicitari aumentassero di anno in anno, convincendoci di un futuro possibile per la professione.
E se la fonte viene dall’esperienza ventennale di Repubblica (pardon Repubblicapuntoittì), allora c’è da crederci. O almeno sperarci. Ma i dati degli ultimi anni dimostrano che la pubblicità si sta spostando sempre più verso i social network, dove gli investimenti rappresenterebbero un’alta fonte di introiti nel medio termine.
L’agenzia pubblicitaria Zenith Optimedia nel suo report Advertising Expenditure Forecasts riporta che la spesa in inserzioni pubblicitarie sui social network passerà dai 29 miliardi di dollari nel 2016 a 50 miliardi di dollari, tra il 2016 e il 2019. Una crescita che, in soli tre anni, sarà del 72%.
È sui social dunque che si giocherà la sfida dei nuovi giornalisti. Questo almeno sembrano dirci i numeri degli analisti. Staremo a vedere che tipo di ventennale si festeggerà nel futuro.