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Il minuetto postreferendum tra Marco Travaglio e Gustavo Zagrebelsky

Marco Travaglio

Con l’eccezione di Francesco Damato (su queste colonne) e di Massimo Bordin (sul Foglio), è passata quasi inosservata. I commentatori politici dei grandi giornali nazionali non l’anno degnata nemmeno di una fuggevole segnalazione. Per scarso interesse o per omertà? Non so dire. Eppure la mega-intervista rilasciata da Gustavo Zagrebelsky a Marco Travaglio (Fatto Quotidiano, 13 gennaio) è per certi versi clamorosa. Vediamo perché. Per pudicizia sorvolo sulle domande tostissime con cui il giornalista incalza la testa pensante del fronte del No al referendum del mese scorso, del tipo: “Si spieghi meglio”, “Che intende dire?”, e così di questo passo. Una spalla ideale per le battute del presidente emerito della Consulta. E che battute! Ne cito tre.

La prima: “Ora che i sondaggi ipotizzano un ballottaggio vinto dal M5S, [l’Italicum] non va più bene e si vuole buttare via una legge mai usata: roba da perdere la faccia”. Avete capito bene: il professore da un lato si lamenta per le conseguenze della sua vittoria, ossia il ritorno al sistema proporzionale (che metterebbe nel sacco i pentastellati), dall’altro quasi rimpiange il doppio turno col premio di maggioranza alla lista più votata, un tempo considerato uno dei due perni di quel famigerato “combinato disposto” attraverso cui Matteo Renzi intendeva realizzare il suo disegno bonapartista.

La seconda: “La Costituzione non lo prevede. Ma un referendum informale [sull’euro] per dare un’idea di massima degli orientamenti tra i cittadini, non vedo perché non sia possibile”. Avete capito bene: il difensore intransigente della Carta del 1948 propende in questo caso per una sua interpretazione “creativa”, e ipotizza la sperimentazione di un istituto fin qui sconosciuto nel nostro ordinamento repubblicano: una specie di consultazione casareccia, alla buona, tanto per tastare il polso degli italiani, come fa qualunque società demoscopica un giorno sì e l’alto pure.

La terza: “[Contro i voltaggabana] una soluzione più semplice [del mandato imperativo] e costituzionale: il parlamentare è libero di cambiare il partito e anche di votare come vuole… Ma, se lascia la maggioranza in cui è stato eletto per passare all’opposizione, o viceversa… subito dopo deve decadere da parlamentare perché ha tradito i propri elettori”. Avete capito bene: l’illustre allievo di Norberto Bobbio suggerisce di abolire il vincolo di mandato senza abolire l’articolo 67 della Costituzione (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”). Paradosso del paradosso, viene abolito solo per i deputati e i senatori che cambiano la loro casacca di maggioranza o di opposizione. Ma in un regime proporzionalistico maggioranze e minoranze di governo si formano in Parlamento dopo il voto. Cosa significa, allora, “tradire i propri elettori”? (a questo punto, il sospetto che Zagrebelskyi in realtà prediliga l’Italicum, magari a sua insaputa, è davvero forte). Resta il fatto che ci troviamo di fronte a un rebus che avrebbe messo in difficoltà anche il più grande giurista del Novecento, Hans Kelsen, che pure era favorevole – ma con ben altre motivazioni – alla cancellazione del divieto di mandato imperativo.

Forse il paragone è azzardato, ma l’ansia di “parlamentarizzare” il movimento grillino che trasuda dall’intervista di Zagrebelsky (e che trova significati riscontri in taluni ambienti dell’intellettualità di sinistra e nella minoranza “bersaniana” del Pd) ricorda il Benedetto Croce che voleva incanalare la protesta dello squadrismo fascista nell’alveo dello Stato liberale. Per fortuna, oggi non c’è bisogno di un delitto Matteotti per capire che si tratta di una pia (per non dire tragica) illusione.



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