Il capitalismo delle grandi famiglie da Pirelli a Italcementi ha già ammainato bandiera, adesso è la volta anche del quarto capitalismo, quello delle multinazionali tascabili, quello che aveva tenuto in piedi l’Italia come grande Paese industriale almeno fino alla grande crisi e alla lunga recessione. La fusione Essilor-Luxottica sembra proprio confermare questa fosca previsione. L’accordo è perfetto sul piano industriale: il numero uno al mondo delle montature si sposa con il numero uno al mondo delle lenti, quello che introdotto Varilux. Nessuna sovrapposizione, nessun conflitto d’interessi. E’ molto meno simmetrico, nonostante le apparenze, dal punto di vista della proprietà e della governance.
Le borse hanno celebrato, anche se sono state più generose con Essilor (+14%) che con Luxottica (+8%). E non a caso. I giornali parigini, con toni talvolta trionfalistici, sottolineano che è Luxottica a diventare francese. E non hanno torto. Sarà Essilor ad acquisire Luxottica inglobandola nella nuova holding quotata a Parigi dove sarà la sua sede. Dunque, risponderà in tutto e per tutto alle leggi francesi. Il titolo Luxottica scomparirà, anche lui, dal listino di Piazza Affari.
Chi comanda? Leonardo Del Vecchio avrà il 31% dei diritti di voto. Tuttavia l’accordo prevede di dividere fifty fifty tutti i poteri tra l’ex patron di Luxottica e l’ex pdg di Essilor che è una curiosa società, in cui i maggiori azionisti con il 14% sono i dipendenti, frutto di una lunga storia che comincia proprio con gli artigiani francesi delle lenti. Una soluzione paradossale: in genere è l’azionista di riferimento ad esercitare la gestione o a scegliere comunque il management. Qui sembra il contrario, perché la coabitazione paritetica durerà tre anni, dopo i quali il comitato nomine presieduto da Essilor deciderà il futuro.
La nuova compagnia diventa una public company. Gli azionisti di Essilor e Luxottica insieme avranno il 49% ma chiunque voglia comandare non potrà avere più del 30% senza lanciare un’Opa ostile. Per un soggetto che vale una cinquantina di miliardi non è un ostacolo facile.
Del Vecchio, alla fine della fiera, ha venduto ai francesi la propria creatura? Lo ha già fatto con la società immobiliare Beni Stabili che ha passato a Foncières des Régions, diventando primo azionista, ma lasciando in quel caso l’intera gestione ai francesi. Il progetto Essilor-Luxottica è stato chiamato Monnalisa, la Gioconda era italiana fino a prova contraria, dipinta da un toscano girovago emigrato in Francia dove è morto, ed è esposta al Louvre.
Come scrive il Wall Street Journal questo accordo risolve la questione della successione che si era fatta ingarbugliata in una famiglia con sei figli da mogli e compagne diverse, con il primogenito Claudio ormai da oltre vent’anni assorbito a New York dalla sua Brooks Brothers. Se così stanno le cose, potremmo dire che si tratta della più grande e clamorosa acquisizione francese in terra italiana, tra le numerosissime avvenute in questi anni. Siccome non siamo sciovinisti né trumpisti, poiché la Francia non è la Cina e tanto meno la Russia, sarebbe sciocco piangere lacrime tricolori (con il verde non con il blu).
Non c‘era nessuno in Italia in grado di garantire la successione all’ottantunenne imprenditore che non voleva lasciare la roba ai figli o a una famiglia troppo allargata? Evidentemente non c’era. C’è stato qualcuno in grado di prendersi Parmalat? O Edison? E che dire di Telecom Italia o adesso di Mediaset dove la partita è aperta, ma il cosiddetto “sistema Italia” gioca comunque in difesa?
Il dato certo è che il grande capitale non abita più qui e l’idea che sia lo Stato, di nuovo, a supplire con i soldi dei contribuenti, è una illusione anacronistica e fuori dal mondo.