America First, ricorda il New York Times, era lo slogan con il quale Charles Lindbergh nel 1940 arringava il movimento contro l’intervento americano nella Seconda guerra mondiale. L’asso dell’aviazione, il primo uomo a trasvolare no stop l’Atlantico, era un eroe popolare che sfidava Franklin Delano Roosevelt, non soltanto su basi isolazioniste, ma da una posizione decisamente filo tedesca (non nascondeva la sua ammirazione per Hitler). Philip Roth, nel suo romanzo “Il complotto contro l’America”, immagina che Lindbergh abbia sconfitto Roosevelt alle elezioni, spostando così le sorti del mondo. Intanto in giro per gli Stati Uniti gli alberghi cominciavano a respingere gli ebrei accusati di voler trascinare al macello i bravi ragazzi americani, biondi e ariani.
Le cose per fortuna sono diverse. E’ vero che in Europa è in atto un goffo tentativo di creare una sorta di internazionale trumpista mettendo insieme tutti gli xenofobi e gli anti-europeisti, da Marine Le Pen passando per Matteo Salvini. Ma quel che li tiene insieme è solo l’odio verso l’Unione europea. Su tutto il resto sono divisi. E’ chiaro il tentativo di sostituire i rubli (che non valgono nulla) con i dollari, ma è davvero improbabile che il neo-nazionalista Donald Trump si metta alla testa di un qualche movimento multinazionale.
America First, per quanto rozzo, pericoloso e allo stesso tempo improbabile, è tuttavia uno slogan destinato a cambiare il paradigma di politica internazionale e anche di politica interna. Nessun può fare da solo nel mondo in cui viviamo, neppure gli Stati Uniti. Chissà cosa accadrebbe se ci fosse un nuovo 11 settembre. Tuttavia contare sulle proprie forze può diventare un atteggiamento prevalente dopo gli anni del multilateralismo e prima di precipitare in un vortice protezionista. Non è vero nazionalismo, né recupero della sovranità (questione complessa quanto pomposa), piuttosto è un comportamento improntato alla cautela.
Contare sulle proprie forze esce dal libretto dei pensierini di Mao per entrare nell’agenda dei governi, anzi nel comportamento dei singoli Paesi. Come? Prendiamo l’Italia. E’ chiaro che non può far nulla da sola. C’entra l’euro, ma non soltanto: essendo un grande Paese manifatturiero (ancora il secondo in Europa) senza risorse interne non può che essere il più aperto possibile al mercato mondiale. Ma c’è modo e modo di gestire questa apertura. Non si tratta di mettere tariffe o di salvare a tutti i costi l’italianità delle imprese (qui è meglio procedere caso per caso e non legarsi ad atteggiamenti rigidi e dottrinari). Si tratta piuttosto di ridurre il più possibile la dipendenza strategica in due campi fondamentali: l’energia e la finanza.
Oggi è possibile essere meno dipendenti dalla Russia sviluppando le risorse interne e quelle rinnovabili, diventando un hub per il gas e il petrolio, costruendo impianti di rigassificatori. In campo finanziario, la priorità assoluta è ridurre la quantità di titoli di Stato da piazzare ogni anno sul mercato, su quello internazionale e su quello domestico. Un ridimensionamento del debito in rapporto al prodotto lordo e in termini assoluti è fondamentale per essere meno ricattati dai mercati, e più credibili nelle trattative internazionali; nello stesso tempo lascia spazio per gli investimenti pubblici e privati, la debolezza di fondo dell’economia italiana.
Italy First. Dunque. Sembra una provocazione intellettuale, tuttavia fossimo nel governo cominceremmo a farci su un pensierino. Niente isolazionismo sciocco né protezionismo autolesionista. Ma abituarsi a contare sulle proprie forze è il modo migliore per affrontare le prossime inevitabili tempeste scatenate dal nuovo disordine trumpiano.