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Perché protestiamo contro la direttiva Bolkestein

Di Gregory Massa

Nel 2010 – in un contesto politico europeo  fortemente negativo per l’Italia  – il governo recepisce la direttiva “Servizi”, alias direttiva Bolkestein, con il decreto legislativo n. 59. Nel procedimento, l’esecutivo italiano decide di non lasciare nulla al caso così, mentre altri paesi danno il via ad una trasposizione “generica”, il Belpaese provvede a inserire delle definizioni puntuali e specifiche che vanno a toccare alcuni settori, tra cui il commercio su area pubblica.

I venditori di tutta Italia – circa 200 mila microimprese – si vedono così inseriti, dal mattino alla sera, nell’applicazione più intransigente della direttiva, l’articolo12, che prevede la messa a bando periodica di tutte le attività soggette a regimi autorizzatori e il divieto di dare vantaggio alcuno al prestatore uscente. Peccato che gli ambulanti debbano acquisire – ormi da decenni – con tanto di atto notarile le attività economiche dove intendono esercitare (posteggi di mercato ecc..) e – inoltre – apertura del settore alle grandi SpA e Coop, fine degli atti di programmazione regionale che permettevano uno sviluppo armonico del comparto.

E’ in questo contesto, dove il commercio tradizionale sta conoscendo una crisi mai vista prima, che iniziano a costituirsi associazioni autonome del commercio ambulante un po’ su tutto il territorio. A Torino si costituisce il “Gruppo Organizzato Indipendente Ambulanti”, G.O.I.A., che da subito si allarga al Veneto, alla Liguria – dove collabora con l’AVAL – e ad alcune province del centro Italia.

Poco importa che molte famiglie abbiano investito lavoro e capitali nella loro attività con la prospettiva di qualche decennio, e nulla importa che molti altri stati membri abbiano ignorato completamente la categoria dal recepimento della norma europea, peraltro senza incorrere in sanzioni, nell’estate del 2012 il governo Monti, per mezzo della Conferenza Unificata, conferma l’applicazione dell’articolo 12 della direttiva agli ambulanti italiani, ma i comuni potranno, per la prima applicazione, dare qualche punto in più ai vecchi colleghi.

Una serie di manifestazioni locali e – parallelamente – un continuo crescere del dialogo con quella parte della politica e delle istituzioni che hanno compreso come il problema, investendo le legittime aspettative di 200 mila imprese, non potrà che avere risvolti negativi sull’economia del paese se non corretto in tempo, portano la Regione Piemonte a varare una legge che mette dei paletti alla direttiva: finché i mercati saranno costellati da posteggi vuoti, assegnabili dai comuni senza particolari difficoltà, i posteggi occupati non andranno a bando. Purtroppo l’impugnazione alla Consulta, che considera la materia di esclusiva competenza statale (“concorrenza”) e la crisi politica del governo Cota, non permetteranno di portare a termine questo processo di revisione. In seguito, la sentenza della Corte europea sui balneari confermerà la direzione presa a suo tempo dal Piemonte: l’applicabilità dell’articolo 12 andrebbe valutata caso per caso tenendo conto dell’effettiva scarsità di spazi per esercitare una determinata attività.

L’azione del GOIA continua, si apre in Lombardia (dove collabora con il PIU – professionisti ed imprenditori uniti), in Puglia, in Sicilia, a Roma, altri comitati locali chiedono di entrare, e il 15 ottobre del 2015 l’associazione è presente all’audizione in X commissione attività produttive della camera dei deputati a discutere la risoluzione “Della Valle”, che mirava proprio a mettere il Governo nelle condizioni di escludere il settore dall’applicazione della direttiva. Purtroppo la risoluzione verrà emendata dal PD: prima di parlare di esclusione si valutino le criticità applicative dell’attuale quadro normativo per mezzo di un tavolo presso il MISE.

Tuttavia il tavolo non viene convocato, così l’azione di protesta continua a livello locale: alcuni Consigli Regionali – tra cui quelli di Piemonte, Lombardia, Liguria, Toscana, Puglia – chiedono al Governo di risolvere il problema, ma senza risultati. Si aggiungono altre criticità: alcuni Comuni del Lazio non sono intenzionati a rinnovare le concessioni per motivi di sicurezza o igiene (area “non idonea”), a Firenze e Venezia si valuta di spostare o sopprimere dei posteggi situati nei pressi di luoghi d’interesse storico – artistico, del resto il decreto Franceschini permette di revocare le concessioni per il commercio su area pubblica con un indennizzo minimo all’esercente. Nel mentre altri comuni chiedono al governo di trovare una soluzione: capofila Torino, dove il GOIA ha la sua sede nazionale.

Il malcontento cresce e sfocia nella manifestazione del 28 settembre scorso in piazza della Repubblica a Roma, dove migliaia di ambulanti e una decina di associazioni autonome, tra cui proprio il GOIA, protesteranno contro questa politica sorda. Il tavolo viene finalmente aperto il 3 di novembre, vengono rappresentate decine di punti critici, l’ANCI per mezzo del presidente De Caro appoggia questa visione e, finalmente, il sottosegretario allo Sviluppo economico Gentile ne prende atto: i problemi ci sono e vanno risolti.

La campagna referendaria assorbe tutta la politica, così si dovrà arrivare al 2 dicembre perché Renzi affermi, in una lettera ufficiale indirizzata al Presidente ANCI, l’intenzione del governo di risolvere le criticità del settore, iniziando ad allineare le scadenze delle concessioni al 31 dicembre 2020.

Il parere reso dal Garante della Concorrenza, GiovannPitruzzella, con il quale si confermano definitivamente le criticità dei bandi, convincerà il nuovo Governo a seguire la strada del predecessore, e il 30 dicembre, nel Decreto “milleproroghe”, arriva la notizia: le scadenze sono allineate a fine 2018.

Ma la battaglia è tutt’altro che finita: se infatti molti comuni, prendendo atto del decreto, sospendono in autotutela i bandi in attesa della definitiva conversione in legge, altri pretendono di continuare mettendo così incertezze su incertezze a carico di una categoria che attende da quasi dieci anni una soluzione. Tutto ciò non fa altro che rimettere la definizione della proroga – primo passo per affrontare finalmente questi  problemi viste le scadenze altrimenti pendenti nei primi mesi del 2017  – alla definitiva conversione del decreto da parte del parlamento, tuttora in corso, dove le azioni di lobbying tentano di riportare le scadenze al computo originale. Non dimentichiamo infatti che dietro all’esperimento dei bandi (stimati in circa un milione di procedimenti) si annidano una serie di interessi legati ai costi che essi comportano per pubblica amministrazione e operatori. Nella discussione sul milleproroghe al Senato, i senatori avranno quindi la possibilità di far capire all’Italia se – dopo il No al referendum –  la “camera alta” riesca a rappresentare ancora realmente gli interessi del popolo.


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