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Vi racconto errori e ambizioni. Parla Francesca Immacolata Chaouqui

Francesca Immacolata Chaouqui

L’unica cosa particolare nella sua vita era quel cognome straniero, fino a quando non è salita sul pullman che da San Sosti, Cosenza, la portò a Roma. “Chaouqui”, eredità di un padre mai conosciuto e suggestione esotica difficile da pronunciare: “Il mio era l’unico cognome non italiano in paese”. Una briciola di unicità, quel tanto che basta, in una ragazzina, a causare una sensazione di inadeguatezza: “Il bisogno di essere accettata e l’esigenza di dimostrare qualcosa a me stessa mi hanno indotto a cercare quell’”oltre”, che partiva dalla curva di ingresso dell’autostrada di Tarsia. Pensavo che lì dietro ci fosse un’altra vita e io dovevo andarmela a prendere”. Ma mentre risaliva l’Italia, mai avrebbe pensato, “nemmeno nei sogni più remoti”, che quel pullman l’avrebbe condotta “ad aiutare il Santo Padre”.
A parlare è Francesca Immacolata Chaouqui, durante la presentazione del suo libro Nel nome di Pietro (Sperling & Kupfer), che si è tenuta ieri alla libreria Nuova Europa, moderata dal giornalista Andrea Di Consoli. Un volume in cui l’ex commissaria della Cosea (Pontificia Commissione Referente di studio e di indirizzo sull’organizzazione della struttura economico-amministrativa della Santa Sede) racconta trame e affari che, dentro le mura vaticane, tentano di ostacolare l’azione rinnovatrice di Papa Francesco. (La Cosea è stata costituita da Bergoglio nel luglio 2013 per sanare le finanze della Santa Sede e si è trovata, dopo poco tempo, in un ciclone di intrighi e scandali che ne hanno portato allo allo scioglimento, nel maggio 2014).

DA SAN SOSTI AL VATICANO

Ha sempre avuto una forte vocazione religiosa, racconta, mentre tiene in braccio il figlio, Pietro, nato nel clou dell’uragano giudiziario: “Mia madre e mia nonna sono donne di fede, ma la fede non si può tramandare, è un dono che ho avuto la fortuna di ricevere”. Laureata in giurisprudenza alla Sapienza, ha lavorato come PR per lo studio legale Orrick, fra gli altri, poi per Ernst & Young, dunque è arrivata la nomina in Vaticano. “Una delle domande che mi sento fare più spesso è come sei arrivata lì? Non arrivavo dal nulla. Ero abituata ad avere a che fare con importanti stakeholder”. Difficile sostenere che chi ha ricoperto incarichi del suo calibro non sia spinto da ambizione (e Chaouqui non nasconde di subirne il fascino) tuttavia, dice, “la nomina in quella commissione è stata il risultato di eventi casuali. Non l’ho cercata, pensavo che avrei potuto dare un supporto come professionista, anche in base al ruolo che ricoprivo in EY, ma non che ne avrei fatto parte”.

“MI SENTIVO UNA GIOVANNA D’ARCO ARMATA DI SMARTPHONE”

“Svolgendo il mio lavoro nella commissione, per la prima volta ho lasciato che la mia parte umana prevalesse sui doveri di professionista. È un libro in cui riconosco gli errori che ho fatto, e ne ho commessi parecchi. Il primo è stato affrontare quell’incarico come una Giovanna d’Arco armata di smartphone, scrivevo, twittavo, non mi ero resa conto di essere entrata in un modo comandato da logiche sui generis, che sopravvivono da duemila anni. Pensavo che le persone al mio fianco fossero animate dallo stesso desiderio”. Il chirografo pontificio che portava con sè e che le dava accesso a stanze segrete e documenti riservati, evidentemente non bastava a scardinare quel sistema labirintico di potere. Chaoqui si sposta poi sulla scoperta dei fondi del Bambin Gesù, utilizzati per l’attico del cardinale Bertone, raccontando un episodio che si ritrova anche nel libro: “Quando è stata fatta la due diligence per il Bambin Gesù, fui avvicinata da uno dei massimi dirigenti della struttura, che mi propose di far condurre l’indagine a un team interno, anzichè a Ernst & Young. Forse sarei stata ricompensata per questo, con un incarico come responsabile delle relazioni esterne del Bambin Gesù o chissà che altro, ma ero ferma nel mio intendimento di rendere un servizio al Papa e di aiutarlo a fare pulizia nella Chiesa”.

“IL MIO ERRORE? METTERE IN CONTATTO I GIORNALISTI CON MONSIGNOR BALDA”

“Io condanno la fuga dei documenti”, continua. “Monsignor Balda ha autonomamente deciso di consegnare parte dell’archivio a Gianluigi Nuzzi e dei documenti a Emiliano Fittipaldi, e ne sono venuti fuori due libri (Via Crucis (Chiarelettere) e Avarizia (Feltrinelli), ndr). Il mio errore è stato presentare i giornalisti al monsignor Balda. Non ho compreso la condizione psicologica in cui versava, sono stata imprudente e questa è stata la ragione per cui sono stata condannata. Nell’ordinamento italiano sarebbe impensabile, ma per la legge vaticana, chi lavora per la Santa Sede diventa membro laico della Chiesa e ne deve rispettare le regole”. Ma non ritiene giusto aver subito il processo: “Mi sarebbe bastato mostrare la lista dei conti laici di cui ero in possesso e che ancora sono presenti allo Ior, per non subirlo. Invece, proprio perchè ho una visione integrale del cristianesimo, sono andata a difendermi”.

“LA RIFORMA DEGLI AFFARI ECONOMICI IN VATICANO NON ESISTE”

Ma perchè la commissione fallisce? Per un motivo ben preciso, spiega l’autrice: “Perché io e Balda ci rendiamo conto di andare in una direzione diversa rispetto agli altri componenti”. Chaoqui ha scelto di dedicare solo poche pagine a Vatileaks perchè, spiega, “il processo è uno specchietto per le allodole. Chi pensa che rappresenti il punto focale dei due anni di pontificato di Papa Francesco, sbaglia. Ciò che mi interessava comunicare”, continua, “è che vi stanno raccontando una favola: la riforma degli affari economici non esiste, c’è una Segreteria per l’economia, nata dal progetto Blueprint elaborato nella mia commissione, ma il capo è il cardinale George Pell, indagato per pedofilia in Australia. Peraltro è in possesso del passaporto vaticano che gli consente di non recarsi in Australia, nonostante il Senato, qualche giorno fa, ne abbia chiesto il rimpatrio”. Ciò nonostante, Chaoqui riconosce a Bergoglio di aver fatto molto per cambiare la Chiesa e racconta dello stop al trasferimento di denaro in Lussemburgo: “Volevano far fare al Santo Padre un fondo in cui portare i soldi dello Ior, per far sì che prendessero il volo verso la grande finanza internazionale, attraverso il Vam (Vatican Asset Management), che era già stato approvato. Lui, invece, bloccò l’operazione e impose che i soldi restassero in Vaticano, che venissero investiti lì, con guadagni minori ma etici, e che il Vam non si facesse. Papa Francesco è un combattente”.



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