Alcuni Paesi dell’Eurogruppo da una parte, il Fondo Monetario Internazionale dall’altra. In mezzo la Grecia e il destino di un’Europa che proprio sull’Ellade e sui migranti si gioca quella che potrebbe essere la partita fondamentale per il suo futuro.
Per il momento si sa solo che il 27 febbraio la troika dei creditori internazionali (Commissione Europea, Banca Centrale Europea, Esm e Fondo Monetario Internazionale) sarà ad Atene per decidere quali riforme la Grecia dovrà implementare per ottenere la seconda tranche del prestito da 85 miliardi sottoscritto nell’agosto il 2015. Il problema è che la visita rischia di trasformarsi in un dialogo fra sordi o, peggio ancora, in una contrattazione all’ultimo centesimo come quelle alle quali la Grecia ci ha abituato in questi anni.
La questione, molto semplicemente, sta in questi termini. L’Eurogruppo vuole che la Grecia vari altre riforme, come ulteriori tagli alle pensioni e l’aumento della base imponibile. Il premier ellenico, Alexis Tsipras, dopo un periodo di collaborazione con la troika dei creditori internazionali, sembra essere sempre più convinto a fare nuovamente della battaglia contro l’austerity il cardine della sua attività politica. Ad aiutarlo, involontariamente, c’è il Fondo Monetario Internazionale che, se da una parte critica Atene per non aver messo in atto alcune raccomandazioni sulla disciplina fiscale, dall’altra sostiene da tempo che il debito greco sia insostenibile e che vada ristrutturato. Una concessione che per Tsipras rappresenterebbe una grande vittoria politica e morale e per la Grecia praticamente una boccata di ossigeno.
Il problema è che fra marzo e settembre si vota in Olanda, Francia e Germania e tutti i leader in uscita temono che la mossa potrebbe venire percepita dall’elettorato come un regalo ad Atene con tutte le ripercussioni sulla campagna elettorale, soprattutto a Berlino.
Il problema è che i creditori internazionali devono prendere coscienza del fatto che solo con l’austerity non si può andare avanti. Anche i più fermi sostenitori della linea tedesca non faranno fatica ad ammettere che ad Atene è stato dato ma anche chiesto molto. L’Ellade ha usufruito di due maxi programmi di aiuto da un totale di 240 miliardi di euro e nell’agosto del 2015 ne ha firmato un terzo per 85.
In cambio da sette anni è sottoposta a politiche di austerity che hanno visto decimare il settore pubblico, quantitativamente e qualitativamente sproporzionato, e perdere di competitività quello privato. Il risultato, fino a questo momento, è un’economia che continua ad arrancare e una popolazione privata dei bisogni essenziali, con tagli alla sanità e all’istruzione che avranno pesanti conseguenze sulle generazioni future.
L’attuale premier, che guida il partito di sinistra Syriza ed è alleato con la formazione di destra dei Greci Indipendenti (Anel), per lungo tempo è stato accusato di avere tradito le promesse elettorali, con le quali aveva promesso meno sacrifici e più equità. Tsipras è anche nell’occhio del ciclone per non aver saputo combattere efficacemente l’evasione fiscale, la vera, grande piaga del Paese, per aver mantenuto immutati gli interessi degli armatori e di altre categorie della pubblica burocrazia protette, come i giudici. Ma soprattutto non ha dato alla Grecia quella spinta di cui avrebbe bisogno e questo forse è l’unico punto su cui è assolvibile almeno in parte, perché di fatto non ci sono margini di manovra.
La pressione fiscale in Grecia è arrivata al 52% contro il 38% del pre crisi. Il 23% della popolazione è senza lavoro e la percentuale sale al 44% nel caso dei giovani. Nel terzo trimestre del 2016, il pil aveva avuto un sussulto di vita con un aumento dello 0,9%, seguito da una contrazione negli ultimi tre mesi del 2016 non prevista dello 0,4% che ha avuto un effetto negativo su mercati e l’umore della popolazione.
Di Grexit non vuole parlare nessuno, ma il malcontento diffuso, oltre a tarpare le ali a qualsiasi forma di ripresa rischia anche di rafforzare la destra xenofoba.