Nella Gazzetta Ufficiale del 22 febbraio scorso è stato pubblicato il Decreto ministeriale (Dpcm) del 29/12/2016 (preso sulla base del D.Lgs 216 del 2010) relativo alla determinazione dei fabbisogni standard dei comuni delle regioni a statuto ordinario per le funzioni da essi svolte. Dedicare un po’ di attenzione a questo Dpcm può aiutarci a capire alcuni problemi della nostra finanza pubblica.
Il Dpcm rientra nella cascata di norme che avrebbero dovuto dar luogo al federalismo fiscale. In regime di federalismo fiscale i trasferimenti dallo Stato alle Regioni e alle Autonomie locali avrebbero dovuto essere sostituiti dal trasferimento di potere impositivo (in modo da far coincidere i centri che decidono la spesa con i centri che decidono il prelievo fiscale).
In considerazione del fatto che l’Italia è articolata in aree economiche molto differenziate (in Calabria sia ha, ad esempio, una partita Iva ogni 3.500 abitanti, mentre in Toscana se ne ha una ogni 21 abitanti), si è subito sentito il bisogno di attivare dei meccanismi di perequazione, per fornire alle aree più povere le risorse che non potrebbero procurarsi con l’imposizione sui soggetti che operano nel proprio territorio.
Fin qui il ragionamento non fa una piega. Il problema si presenta quando ci si accinge a valutare il bisogno di perequazione: di quanti soldi, oltre a quelli che riesce a recuperare con le proprie imposte, ha bisogno la Calabria? La metodologia di base per calcolare questo fabbisogno perequativo dovrebbe far riferimento a indicatori macroeconomici (ad esempio livello di reddito medio, laddove la Regione che ha un livello inferiore alla media dovrebbe vedersi riconosciuta una perequazione), macro-sociali (a livelli di istruzione più bassi, sempre a titolo di esempio, della media dovrebbero far da contrappeso delle perequazioni finanziarie) e geografico-territoriali (aree con carenze idriche, ad esempio, dovrebbero avere delle perequazioni).
Il Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa raccomanda che le risorse finanziarie erogate a titolo di perequazione delle debolezze strutturali di une specifica zona non debbano essere erogate con vincolo di destinazione d’uso. Se si arriva a stimare, cioè, che la Calabria ha bisogno di una integrazione di x euro a fronte del suo minor reddito pro capite medio, questa somma non deve essere erogata con l’obbligo di essere spesa in interventi di tipo socio-assistenziale o altro. Le autorità regionali e locali della Calabria devono essere lasciate libere di utilizzare le risorse secondo le proprie scelte, ovviamente da esercitare nell’ambito del quadro di legalità.
Il metodo adottato in occasione dell’avvio del Federalismo fiscale (che il Dpcm del 29/12/2016 pubblicato in Gu il 22/02/17 ci richiama alla mente) segue un percorso tutto diverso. Anziché rifarsi al criterio generale della perequazione si basa sul concetto di fabbisogno standard e il fabbisogno standard è calcolato sulla base dei costi standard dei servizi da erogare. Qui si presentano due problemi: uno tecnico e uno di filosofia di sistema.
Il problema tecnico consiste nella individuazione del costo standard. Qui le difficoltà sono di due tipi: (a) il costo di un pasto mensa per i poveri dipende anche dalla qualità del pasto offerto (quindi definire un costo standard significa, in fin dei conti, imporre un livello standard); (b) per conoscere il costo standard avrei bisogno di una contabilità articolata sul versante della spesa per destinazione della stessa e non per la natura di quello che compero; orbene i dati forniti dalla contabilità dei nostri comuni (visto il ritardo nell’applicazione della riforma della contabilità prevista dal D.Lgs 118/2911) non forniscono queste informazioni e, pertanto, i costi stimati sono “di fantasia”.
Di fatto il sistema che sta, più o meno consapevolmente, alla base di questo Dpcm prevede un meccanismo non di sofisticato management pubblico ma di imposizione di prezzi uguali per tutti, con buona pace per la libertà di concorrenza e di mercato.
Questa vicenda è evidentemente il frutto del disorientamento in cui si trova il nostro legislatore (non solo il parlamentare eletto ma anche la tecnostruttura che lo supporta). Il disorientamento riguarda innanzi tutto il fatto che il decentramento non è una questione di democrazia ma una necessità tecnica. A partire dagli anni ’70 in tutto il mondo occidentale abbiamo assistito a una ondata di decentramento dovuta alla crescita delle funzioni della sfera pubblica. A evitare che tutte le nuove funzioni non finissero per sovraccaricare il governo centrale facendone un collo di bottiglia, ci si trova costretti a far ricorso al decentramento. In secondo luogo ci si deve rendere conto che attivare e far funzionare il decentramento non è un fatto di mera volontà politica, ma di competenza tecnica.