La nostra Costituzione stabilisce che ogni cittadino deve contribuire alla spesa pubblica in relazione alla propria capacità contributiva, ovvero che in maniera progressiva all’aumentare del reddito deve corrispondere un aumento dell’imposizione fiscale.
I dati pubblicati ieri dal MEF sull’IRPEF incassata nel 2015 descrivono però una realtà molto differente e soprattutto molto lontana dall’equità sociale-fiscale che dovrebbe essere alla base del nostro “sistema paese”.
Se prendiamo in considerazione infatti il ceto medio italiano ricompreso in un’ipotetica fascia reddituale tra i 26.000 ed i 70.000 euro annui ci accorgiamo che benché corrisponda solo al 31% dei soggetti che pagano l’IRPEF, contribuisce al versamento di circa il 45% dell’imposta complessiva incassata dallo Stato.
In termini numerici, 9 milioni di contribuenti sul totale di 31 milioni pagano imposte per 70 miliari di euro su complessivi 155 incassati nell’anno.
Il dato diventa ancora più sconcertante se al ceto medio aggiungiamo la fascia reddituale “più alta”, quella compresa tra i 70.000 e 100.000 euro, in questo caso infatti il campione arriverebbe al 32,5% della popolazione IRPEF con versamenti pari a quasi il 55% del totale dell’imposta incassata.
Questa enorme distorsione, in cui pochi cittadini versano più della metà delle imposta complessiva, è dovuta non tanto al principio di capacità contributiva che giustamente garantisce una ridistribuzione della ricchezza ma a come è stata strutturata la progressività dell’IRPEF, che colpisce soprattutto il ceto medio, per via del vertiginoso salto verso l’alto delle aliquote fiscali in quelle fasce di reddito.
Non bisognerà stupirsi quindi se il ceto medio italiano nel prossimo futuro si ridurrà drasticamente, diventando una specie a rischio d’estinzione, sia per colpa dalla crisi ma anche (e soprattutto) della sproporzionata pressione fiscale.
Questo dato va quindi attentamente analizzato considerando anche il report pubblicato dall’OCSE sull’economia italiana, che evidenzia grande aumento del livello di povertà e l’ampliamento inesorabile della forbice reddituale che divide i ceti sociali, per non ritrovarci all’alba del ventunesimo secolo in una società a carattere feudale.