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Dj Fabo, l’eutanasia e la pietà

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Giudicare la vita degli altri è già un esercizio molto complicato, soprattutto se non si è capaci di giudicare, prima di tutto, se stessi. Figurarsi, allora, che cosa si possa mai dire di una persona che era piena di energia e popolare tra i ragazzi quando stava bene, e che ha chiesto di morire perché da tre anni cieco e tetraplegico e solo – solo “dentro”, nell’anima ferita – per colpa di un incidente stradale.

Pietà, soltanto pietà per dj Fabo, nome d’arte di Fabio Antoniani, ora che non c’è più, perché ha scelto – o meglio – è stato costretto a scegliere la Svizzera per realizzare quell’ultimo desiderio che aveva più volte richiesto invano al suo amato Paese: l’eutanasia, la dolce morte che in vari Stati d’Europa è contemplata pur in forme diverse, e che in altri è invece proibita e punita, se qualcuno – medici, familiari, amici – contribuisce a provocarla. Fabo è stato accompagnato a morire da Marco Cappato dell’Associazione Luca Coscioni, che adesso ripropone il grande dilemma di coscienza a un Parlamento dal vuoto legislativo.

La differenza dell’Italia col resto dell’Unione non è fra il torto o la ragione di legislazioni che mai potranno indicare quale sia la via da seguire quando la vita, che è il bene più prezioso e non negoziabile, diventa un calvario per chi sente di non riuscire più a sopportarlo. Immobile e tra sofferenze inenarrabili, come dj Fabo (“un inferno di dolore, dolore, dolore”, fra le sue ultime parole).

È giusto, non è giusto? Che domanda mal posta. L’unica libertà che una società civile deve saper assicurare ai suoi cittadini è quella di vivere. Ma non si possono chiudere gli occhi davanti a drammi che si svolgono quasi sempre in silenzio e talvolta, come nel caso di Fabo, gridando al mondo la volontà di dire addio col filo di voce rimasto.

La vita è amore, il divino sentimento “che move il sole e l’altre stelle”. Ma la storia del dj sfortunato e disperato e di altri come lui ci dicono che le meravigliose parole di Dante non bastano per spiegare tutto.
Il Parlamento non può buttarla sul filosofico-religioso, zigzagando tra opposte ideologie del “fine vita” per gli uni, i favorevoli all’eutanasia, e dell’“aiuto al suicidio di Stato” per gli altri, i contrari.

Occorrono regole certe nel pur incerto confine dell’”accanimento terapeutico”. Regole che consentano a medici, familiari, persone così malate da non essere più consapevolmente disposte a sopportare l’”inferno di dolore”, di prendere le loro decisioni, e a noi di rispettarle.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


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