Ai tempi del dolorosissimo caso Englaro l’allora segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata (in foto), disse: “Siamo vicini alla famiglia così duramente provata, ma è del tutto evidente che qualsiasi azione volta ad interrompere l’alimentazione e l’idratazione si configurerebbe, al di là delle intenzioni, come un atto di eutanasia”. Poi giunse il caso Welby: non doveva essere considerato un atto di eutanasia, visto che in questa nuova, dolorosissima circostanza, non è stata interrotta né alimentazione né idratazione, ma la ventilazione. Ma il Vicariato decise che le porte della chiesa rimanessero chiuse: le esequie ebbero luogo in forma laica.
Oggi a Milano si ricorda in una parrocchia milanese Fabo, che l’eutanasia ha scelto e praticato, in Svizzera. L’annuncio è comparso così: “Per chi volesse salutare Fabo, la cerimonia sarà venerdì 10 alle ore 19 nella parrocchia di Sant’Ildefonso, piazzale Damiano Chiesa 7, a Milano”. Una cerimonia in chiesa che è un ricordo e non una messa, perché Fabo avrebbe preferito così, si è scritto. L’uomo sembra tornare più vicino a tutti noi, laici e cattolici, con il suo carico di dolore e di ricerca.
Qual è il modo migliore per onorare tanti diversi dolori? Innanzitutto quello di rispettarli tutti. Occorre dunque partire da un dato di realtà: c’è il dolore di chi deve fuggire da guerre, carestie, mancanza di acqua potabile; c’è il dolore di chi è abbandonato da una società sempre più in difficoltà quando si tratta di assistere: c’è il dolore di chi si sente sacrificato sull’altare della normalità, c’è il dolore di chi è escluso, e altri ancora.
La chiesa che accoglie Fabo, guarda principalmente a lui, alla sua lunghissima sofferenza, e lo fa con rispetto. Altrettanto dovremmo saper fare noi, società civile. Nessuno dovrebbe pensare di aver vinto o perso, ma tutti dovrebbero chiedersi come progredire nell’attenzione per la persona.
I progressi della medicina e il diffondersi di malattie come che si possono prolungare per anni ma non far regredire, pongono tanti di noi a contatto con la cultura reale dello scarto, come anche con il rischio dell’accanimento terapeutico. Eppure c’è un dato semplice da notare: neanche l’evidente indispensabilità delle badanti alla sopravvivenza di tanti dei nostri anziani ci consente di convenire sull’ importanza ormai sociale di queste persone, quasi tutte extra-comunitarie.
La cultura dello scarto ci riguarda anche in questo senso, come riguarda la nostra difficoltà, a volte il nostro fastidio ad assistere mentre dobbiamo andare al lavoro, o preservare la priorità del nostro tempo libero: l’accanimento terapeutico appare un problema più tecnico, ma riguarda anche la percezione della realtà del malato, inconsapevole o alla ricerca di “una fine degna”. Com’è accaduto a Udo Reiter, a lungo direttore del Littledeutscher Rudfunk, paraplegico dal ‘66 a causa di un incidente stradale. Nel 2013, cioè un anno prima di morire, ha scritto sulla Suddeutsche Zeitung: “Sono inchiodato su una sedia a rotelle da 47 anni e ciononostante ho condotto una vita piena e decisa da me. Prima o poi finirà. Ma come? Non voglio ritrovarmi a essere una persona non autosufficiente che viene lavata, rasata e pulita da altri. Non voglio che mi nutrano attraverso le cannule né che mi tirino fuori gli escrementi con guanti di gomma. […] Voglio restare a casa mia, dove ho vissuto felice, e addormentarmi bevendo un buon cocktail, ma per farlo mi serve aiuto, possibilmente di natura medica”.
Quanti hanno avvertito il terribile peso di dover contribuire a capire se un malato volesse che altro fosse tentato. Quei momenti sono difficili da capire in base a “categorie”. Poi c’è il malato che desidera “dignità”: difficile sostituirsi a lui nella valutazione, magari per anni.
Non credo utile ideologizzare “la vita”, e farlo magari mentre non vogliamo vedere altre sofferenze, come la fuga, l’emarginazione, l’isolamento.
Sono problemi sui quali si rischia per difendere idee di offendere persone. Oggi spero che Fabo ci aiuti a fare un altro passo avanti, rispettando il dolore altrui prima che le nostre categorie. Bivi come questo non si risolvono con il sì a tutto, o il no a tutti. Bergoglio parla spesso e volentieri di discernimento, una parola apparentemente difficile, l’unica che per me può diventare una bussola di umanità.