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Come smascherare le fake news senza fare la guerra ai social. Parla Renee Hobbs

Renee Hobbs

Nell’era di Internet, enorme piazza democratica in cui tutti possono dire tutto e il contrario di tutto, esiste una mappa per guidarci tra fonti e contenuti? A chi possiamo credere?

Le fake news hanno tenuto banco nella campagna presidenziale Usa e fake news è la parola del giorno ogni giorno per il candidato uscito vincente da quella campagna, Donald Trump. Il risultato è che l’impressione generale in America è che le bugie ripetute possano diventare verità mentre la fiducia nei “media tradizionali” è al livello più basso di sempre: solo il 20% dei cittadini statunitensi li ritiene credibili, come ci ha svelato Renee Hobbs, Professor of Communication Studies e Director Media Education Lab della University of Rhode Island ed esperta internazionale di comunicazione, alfabetizzazione digitale, lettura critica dei media e fake news.

Formiche.net l’ha incontrata a Roma, una delle tappe di una serie di conferenze tenute in Italia – non a caso in università, come quella della Tuscia a Viterbo e La Sapienza di Roma, e alla scuola di giornalismo radiotelevisivo a Perugia.

Davvero i giornalisti hanno perso ogni credibilità?

Vede, nella società globale connessa produrre contenuti costa sempre meno e questo fa fiorire siti, blog, canali YouTube e così via, che veicolano qualunque genere di informazione, molte volte difendendo interessi o portando avanti punti di vista di un settore. Sono notizie false? Sono sicuramente di parte, ma per il pubblico va bene così, perché ciò che conta oggi non è essere una testata vecchia di 100 anni con uno staff di giornalisti esperti ma saper comunicare in modo veloce e personalizzato. E’ così che si cattura l’attenzione. Intanto i click si moltiplicano e la condivisione virale si traduce in profitto.

Ma le fake news non sono solo informazioni “di parte”. O ci sono tante declinazioni delle fake news?

Per me ne esistono sei tipi fondamentali. Il primo è la vera e propria disinformazione. Si tratta di notizie false create appositamente per sviare l’avversario, come fanno le agenzie di intelligence o le forze militari ma anche le aziende se vogliono confondere i concorrenti prima del lancio di un prodotto. Il secondo tipo è la propaganda. Non ha necessariamente la connotazione negativa che le ha affibbiato la storia, soprattutto tra la prima e la seconda guerra mondiale, ma è comunque informazione che strategicamente e abilmente viene confezionata per sostenere un’idea e conquistare il pubblico, parlando al cuore prima ancora che alla mente. C’è poi la partisanship, lo abbiamo detto: l’informazione di parte.

Insomma, il blog dei ciclisti e il blog degli automobilisti, ognuno con la sua versione dei fatti. Certo non un reportage giornalistico.

Ma anche per il giornalista c’è in agguato la fake news legata all’errore umano, non frequente ma possibile. Il giornalista verifica le fonti, ma se le fonti mentono al giornalista e lui non ha modo di accorgersene? E infine altri due tipi di fake news: la satira, e la burla (hoax), una falsità divertente, creata per far ridere. Sono sempre notizie false, anche se in questi due casi lo scopo è solo la parodia o critica del sistema, e l’ilarità.

Fatto sta che siamo circondati da informazioni, che possono essere più o meno corrette e affidabili, e il rischio è che qualche falsità si trasformi in verità nella percezione comune. Si tende a dare molta della colpa di questo fenomeno ai social network che operano da cassa di risonanza per le fake news, ma, secondo lei, esageriamo a farne il capro espiatorio?

La produzione e il consumo di notizie sono oggi estremamente frammentati ed è vero che per molti informarsi vuol dire leggere pezzetti di notizie sui social spesso slegati dal contesto. Facebook e Google si sono posti il problema della loro responsabilità sociale in merito alle fake news. All’indomani delle elezioni presidenziali i dati stessi di Facebook hanno parlato chiaro: da febbraio a novembre 2016 le fake news hanno ottenuto sempre più engagement sulla piattaforma fino a superare i media tradizionali, la cui capacità di farsi leggere e condividere ha continuato a scendere. I social non creano le fake news ma certo possono dar loro diffusione mondiale. Si riflette su due tipi di “rimedi“: etichette e algoritmi. Le etichette potrebbero segnalare le notizie con scarsa affidabilità e gli algoritmi permetterebbero di filtrare le fake news nel mare dei contenuti e cestinarli direttamente.

Funzionerà?

Non credo. E le dico perché. Uno, i social network siamo noi, le persone che ci scrivono e che guardano foto e notizie, quindi controllarli è impossibile. Due, creiamo etichette e algoritmi in base a quali criteri? Chi decide i parametri per distinguere vero e falso? Non rischiamo di cadere di nuovo nella visione di parte? Nell’era digitale non ci sono più separazioni nette tra i generi. Anche definire il giornalista è difficile. In Italia esiste un ordine e forse ciò che il giornalista valida resta superiore a ciò che riferisce il testimone oculare, ma negli Stati Uniti il testimone oculare che filma un evento col cellulare è a tutti gli effetti un reporter. Ora tutto questo sconfinamento da un genere all’altro e da una professione all’altra fa parte della creatività dell’era digitale e rappresenta un’evoluzione positiva; tuttavia ci chiama a una consapevolezza, come consumatori e come autori di contenuti, nuova.

La soluzione è nell’essere consumatori e creatori di media più attivi e responsabili?

Sì. Siamo noi che di fronte a ciò che Internet (e qualunque altro mezzo di informazione) ci propone dobbiamo porci delle domande. Dobbiamo affinare, potenziare e esercitare il nostro senso critico. Dobbiamo insegnarlo ai ragazzi fin dalla scuola, con programmi di ICT and media literacy, purtroppo oggi ancora poco diffusi. Di fronte a un testo, un contenuto, un articolo, che sia di carta o digitale, la prima domanda è: chi l’ha scritto e per quale motivo?

Cercare il movente, come nel delitto.

Esatto, the motive. Che ci dà un indizio fondamentale su qual è lo scopo di chi scrive. Da lì, seguono le altre domande che ci permettono di raccogliere tutti gli altri indizi: quali tecniche vengono utilizzate per catturare l’attenzione del lettore e tenerlo incollato allo schermo o alla pagina? Questo vale in ogni genere di comunicazione: il titolo, l’immagine, i colori, i font – c’è una molteplicità di elementi che sono chiamati ad attrarci e lusingarci. E poi dobbiamo chiederci: questo contenuto, quali punti di vista rappresenta, quali valori? Che messaggio vuole dare e come può risuonare su audience diverse? Ci potrebbe essere una parte della storia che viene omessa o lasciata in ombra?

Questo è il vademecum del lettore consapevole. I media “tradizionali” invece – lasciando da parte i gravi episodi in cui il loro ruolo di informatori obiettivi viene denigrato o negato – che cosa possono fare per recuperare autorevolezza tra il pubblico?

Ascoltare il pubblico e quello di cui ha bisogno, proprio come farebbe qualunque altra azienda col suo cliente. Il pubblico non è così sprovveduto. Sa bene che ci sono fonti diverse per informarsi, ma ha bisogno che tali fonti parlino alle sue orecchie in modo convincente, dando un messaggio che è comprensibile, capace di fornire risposte alle sue domande. La notizia va scritta anche per il pubblico, veicolando il contenuto con criteri di immediatezza, personalizzazione, facilità nel farsi capire e trovare sui canali dove il pubblico è presente. L’attenzione del lettore oggi si cattura più così che con il blasone della testata. Recuperando reputazione, credibilità e audience i media tradizionali riusciranno anche a far accettare un concetto che si è perso lungo la strada: è giusto pagare per le notizie, perché l’informazione costa ma vale la spesa.


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