Decine di migliaia di persone hanno manifestato ieri per le strade e piazze vicine al Campidoglio, mentre le diplomazie europee partorivano con soddisfazione la Dichiarazione di Roma. Un comunicato scritto da diplomatici, ad uso e consumo dei media, che hanno potuto così mettere in scena il grande spettacolo della retorica dell’integrazione: principi altisonanti, solidarietà, unione spirituale, impegno politico costante. Belle parole, che tuttavia rischiano di rimanere vuote; mai accompagnate da un dettaglio tecnico, da una promessa vincolante; senza indicare una strada, un’idea, una direzione, un metodo.
La Dichiarazione di Roma ci dice che i governi dei 27 paesi dell’Unione Europea si impegnano a procedere verso una maggiore integrazione, rendendola più sicura, più forte e resiliente, capace di agire, solidale, sostenibile. Ne siamo molto contenti.
Ma come intendono farlo? In quanto tempo e con quali scadenze? Quale Europa ci vogliono consegnare? Sarà ancora un’Europa intergovernativa, basata su compromessi diplomatici tra governi (quindi inutile ed inefficace)? O sarà una genuina democrazia sovranazionale? Sono alcuni paesi pronti a costituire un’avanguardia federale, senza lasciare che prevalgano i compromessi a 27? Hanno intenzione di completare con urgenza l’unione economica e monetaria dotando il bilancio europeo delle risorse necessarie per fornire ai cittadini i beni collettivi che chiedono: sicurezza, difesa, una strategia seria e coerente sui flussi migratori sganciata dalla gestione delle emergenze, politiche energetiche comuni, innovazione e ricerca, difesa del welfare state? O pensano di farlo col bilancio esistente, e coi bilanci nazionali vincolati dal rispetto del Patto di Stabilità (e, teoricamente, Crescita)?
Le migliaia di persone che hanno dimostrato in piazza ieri a Roma avevano intenti e sensibilità profondamente diverse. Ma erano accomunate da due elementi fondamentali, che è necessario comprendere ed analizzare a fondo.
Il primo: l’analisi della situazione attuale di stallo, disagio, insoddisfazione, persino rabbia, come attribuibile ad una distanza profonda e crescente fra esercizio del potere ed esercizio della sovranità. Potere e sovranità sono stati tradizionalmente esercitati a livello dello Stato-nazionale, in un rapporto di lealtà assoluta ed esclusiva del cittadino-suddito (che contribuiva col pagamento delle imposte e la coscrizione obbligatoria) nei confronti del sovrano, fosse esso un re o un governo parlamentare (il quale forniva i beni pubblici necessari alla convivenza civile: amministrazione della giustizia, difesa; poi educazione, stato sociale, ect). All’indomani del secondo conflitto mondiale si comprende che proprio l’esercizio esclusivo della sovranità a livello nazionale, assistito dal potere giuridico e militare, era la chiave sulla quale agire, scardinandolo, per evitare che un conflitto qualsiasi potesse degenerare in guerra. Nasceva così, proprio in questa logica, nel 1951 la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, che metteva in comune, sotto un’Alta Autorità formata da rappresentanti di tutti i paesi aderenti, le risorse cruciali per fare la guerra: carbone e acciaio appunto.
Poi, nel corso degli anni Cinquanta, il processo s’interrompe. La Comunità Europea di Difesa viene approvata nel 1952 e poi affossata dalla Francia gollista nel 1954; e si ripiega così su una integrazione per piccoli passi, tutti nel campo economico. Senza mai mettere in discussione il diritto di veto nelle decisioni collettive: il miglior modo per privilegiare il mantenimento dello status quo.
Ma con l’avvento della globalizzazione, della crescente interdipendenza globale, delle dinamiche che rimettono in discussione gli assetti internazionali di potere dopo il crollo del sistema bipolare, gli Stati nazionali europei non hanno la dimensione politica ed economica necessaria ad affrontare le sfide cruciali per assicurare un futuro ai propri cittadini: non riescono cioè più ad esercitare la sovranità, a garantire loro quei beni collettivi di cui gli individui necessitano. E rimane solo l’esercizio del potere: quello di decidere chi siede nei consigli di amministrazione, a chi elargire prebende elettorali, il mantenimento e l’ampliamento delle clientele. Il cittadino si ritrova così schiacciato: da una sovranità che nessuno esercita più a livello nazionale e manca ancora a livello europeo; e lo squallore dell’esercizio quotidiano del potere, sempre più fine a sé stesso, alla propria riproduzione. Da qui la delusione, anche la rabbia.
Il secondo elemento comune: la convinzione che questo tipo di Unione Europea, basata sul metodo intergovernativo, non è in grado di sanare il conflitto sopra descritto. Al massimo, l’Europa intergovernativa può partorire la dichairazione che abbiamo visto ieri. Non può andare oltre.
Di fronte a questa consapevolezza, i no-euro ed i sovranisti-nazionalisti non credono sia possibile creare una democrazia sovranazionale e multilivello, ed optano quindi per il ritorno alla sovranità nazionale come modello di gestione della vita pubblica e di fornitura dei beni pubblici di cui i cittadini necessitano. Nella speranza che funzioni. Anche a costo di rialzare muri, barriere, divisioni.
Gli altri, quelli che come me hanno marciato per un’Europa diversa, per cambiare rotta all’Europa, credono ancora che l’integrazione europea sia un valore, ma non in questa forma intergovernativa, incerta, di compromesso fra interessi nazionali; e si battono per realizzare un sistema di democrazia su basi federali, per spazi di scelta collettiva articolati dalla dimensione locale a quella sovranazionale.
Purtroppo invece è esattamente questo modo di essere Europa che è stato riaffermato dai Capi di Stato e di Governo, senza mettere in discussione l’assetto della UE, dell’eurozona, senza indicare passi concreti ed urgenti per uscire dall’impasse. Come se bastassero piccoli aggiustamenti per risolvere i problemi, per far ripartire l’economia europea, per rilanciare il ruolo dell’Europa nel mondo.
È doloroso dirlo: ma in questo modo la distanza fra cittadini e istituzioni è destinata ad allargarsi ancora di più, rischiando di arrivare a livelli irreversibili, radicalizzando l’opinione pubblica e spedendoci dritti nelle spire del nazionalismo, di cui evidentemente ormai la maggior parte della popolazione ha dimenticato gli orrori.
In mezzo, fra le diplomazie alla ricerca del compromesso a tutti i costi, e i cittadini in attesa di risposte concrete, stanno i nostri governanti. Che attoniti, impotenti di fronte a dinamiche storiche e sociali che non sono in grado di comprendere (figuriamoci di guidare) e tutto sommato comodamente assuefatti alla gestione del potere, hanno colpevolmente lasciato il rilancio dell’Unione Europea ai proclami delle proprie diplomazie. Contro i bisogni dei propri cittadini.
Vedremo adesso se riusciranno ad abbandonare alla memoria storica le dichiarazioni diplomatiche per affrontare i nodi veri dell’integrazione europea, completando il disegno intravisto oltre sessant’anni fa dai padri fondatori. Se non saranno capaci, nei prossimi mesi, di mostrare che l’Europa è pronta a mettersi in discussione per affrontare i bisogni dei propri cittadini con serietà e in una prospettiva unitaria, vedremo in piazza persone sempre più scettiche, sgomente, rabbiose di fronte ai fallimenti di questa Europa intergovernativa. Persone che sceglieranno partiti nazional-sovranisti, sia per punire i loro pavidi governanti (incapaci, esattamente come i nazionalisti dichiarati, di realizzare una sovranità europea condivisa), sia per non restare col cerino in mano se e quando la UE si disgregherà, mentre continueremo a sognare un’Europa che nessun governo mostra di volere davvero.