I fari dell’Occidente sono accesi sulle più drammatiche, convulse, incerte elezioni presidenziali della Quinta Repubblica francese. Nessuno immaginava alla vigilia della competizione, partita con largo anticipo rispetto alla consuetudine, che i candidati ed i cittadini si sarebbero trovati davanti all’ignoto, impauriti e frastornati. Il ripetersi degli attacchi jihadisti negli ultimi tre anni ha cambiato lo spirito del Paese profondamente, mentre la politica si è dimostrata non all’altezza della sfida che era chiamata a sostenere. Sembra oggi, a poche ore dall’apertura delle urne, che la chiamata alle armi – per così dire – non si concentri più sulla rottamazione o il mantenimento riluttante dell’Unione europea, con tutto quel che ne consegue, ma sulla tenuta di una nazione che improvvisamente si è trovata in guerra (e non esageriamo affatto nel richiamare questo spettro fattosi concreto al di là di ogni aspettativa).
Nessuno dei “presidenziabili” sa che cosa proporre concretamente perché a lungo tutti, nessuno escluso, hanno giocato la carta della delegittimazione reciproca, mentre i francesi attoniti guardavano intorno a loro crescere il disagio che ha molti nomi – dall’immigrazione incontrollata all’impoverimento che ha penalizzato soprattutto il ceto medio, dalla denatalità al laicismo radicale che ha snaturato la cultura e la tradizione di una grande comunità – mentre l’attacco al cuore della nazione si faceva sempre più tracotante. E le marce, i proclami, la retorica, le promesse, le minacce ai selvaggi jihadisti non hanno dato nessuno dei risultati sperati.
Nelle ore successive all’attentato sugli Champs-Elysée ognuno dei candidati ha cercato di portare acqua al proprio mulino, ribadendo il ricorso a strategie che si sono nel tempo rivelate non più che slogan elettorali. Non avrebbero potuto inventarsi nient’altro, purtroppo, dopo aver fatto della nazione un campo di battaglia senza minimamente provare a cercare quella coesione indispensabile per battere il nemico, colui che finora ha mietuto vittime ed i suoi sporchi trionfi li spende in un Medio Oriente lacerato, abbandonato dall’Europa, teatro di altri conflitti che hanno una posta altissima: il nuovo ordine mondiale.
Se i candidati all’Eliseo fossero stati capaci di comprendere le dimensioni della contesa planetaria che si sta profilando, probabilmente avrebbero fatto fronte comune intanto per salvaguardare la Francia e poi per mettere in sicurezza una campagna elettorale che più sguaiata e politicamente confusa non avrebbe potuto essere: scandali a iosa da un lato, parole d’ordine vecchie e usurate dall’altro. E, come si conviene, in una pochade (sia pur paradossalmente dai tragici accenti) l’emergere improvviso di una “stellina” nel nero firmamento. Sarà Emmanuel Macron il nuovo presidente dei francesi che ha acceso speranze non sappiamo quanto fondate dopo essere stato allevato all’Ena, dopo aver fatto parte della corte dei Rothschild, dopo aver collaborato e abbandonato Hollande che aveva investito su di lui (qualche responsabilità sul disastro francese la porterà pure essendo stato ministro dell’Economia, o no?), dopo aver tradito i socialisti per fare un suo partito “né di destra, né di sinistra”, ma piacevolmente accudito da quadri della Cgt e da rilevanti esponenti dell’alta finanza (guarda un po’ che intrecci!)? Sembra proprio di sì. Tutti i grandi giornali europei puntano su di lui. Ne abbiamo sfogliati una ventina tra i più autorevoli: non uno che s’interroghi su che cosa farà Macron per sollevare una Francia prostrata come raramente lo è stata dopo la guerra mondiale ed i fatti d’Algeria e d’Indocina. E avanti con il vecchio gioco: Macron deve vincere per sbarrare il passo alla Le Pen, perché Fillon è diventato “impresentabile”, per non parlare di Mélenchon l’ultimo sopravvissuto di una sinistra in disarmo…
E sia. Non è elegante ricordarlo, ma in questa occasione sembra necessario per non ingenerare equivoci: Formiche.net, quando il giovanotto di Amiens non era ancora il leader che in pochi mesi è diventato, lo pronosticò vincitore, mentre tutti incoronavano Fillon. La logica di allora portava a quella conclusione. Ma oggi, chi può dire che Macron è davvero l’uomo da battere? Non è stata la terroristica variabile introdotta dall’Isis nelle elezioni francesi a rendere ancora più incerto l’esito, ma lo svolgimento stesso della competizione partita come scontro di idee e finita a pesci in faccia (i cosiddetti intellettuali hanno fatto abbondantemente la loro parte demonizzando pregiudizialmente ora questo e ora quello) con un solo nemico da battere: Marine Le Pen. Il doppio turno in Francia viene interpretato in maniera così restrittiva da sottrarre al popolo la disponibilità a decidere: non si sceglie il migliore (o quello ritenuto tale), ma il meno peggio facendo valere l’assemblaggio di tutti i perdenti contro uno solo.
Ecco: una campagna elettorale con una valenza politica “alta”, al di là dei temi usuali, avrebbe dovuto soffermarsi su quelli istituzionali concernenti anche la rappresentanza e, dunque, la democrazia partecipativa. Nessuno ne ha fatto parola, neppure chi ci rimetterà le penne tanto domani sera che il 7 maggio.
No, non le vincerà l’Isis queste elezioni: molto più semplicemente le perderà la Francia se non troverà la coesione che le manca e quell’antica identità che non può essere declinata soltanto come ripresa del “sovranismo” dottrina smarrita tra personalismi pittoreschi e strategie mondialiste aduse a manovrare le elezioni (non solo in Francia beninteso) per ottenere il potere vero.