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Come Matteo Renzi ha surclassato Andrea Orlando e Michele Emiliano alle primarie Pd

Matteo Renzi è dunque passato dall’extra small del 4 dicembre, quando la sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale ne ridimensionò molto la figura politica, all’extra large del 30 aprile: con quei due milioni di partecipanti alle primarie, di cui oltre il 70 per cento favorevole al suo ritorno alla segreteria del Pd, il 21 per cento al guardasigilli Andrea Orlando e meno dell’8 per cento al governatore pugliese Michele Emiliano.

Ci saranno rimasti un po’ male non tanto i due concorrenti sconfitti, che Renzi ha assennatamente ringraziato per avere contribuito alla mobilitazione dei simpatizzanti ed elettori del partito, quanto i fuoriusciti dal Pd. Penso ai vari Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, che pensavano di avere procurato all’odiato avversario con la scissione un danno irreparabile.

I due – Bersani e D’Alema, in ordine naturalmente alfabetico, anche se il secondo può vantarsi di essersi trascinato appresso l’altro nella lotta senza quartiere all’”intruso” – sono stati per un po’ indecisi se continuare a fargli la guerra, fuori dal Pd, per interposta persona mandando i loro compagni ai gazebo per sostenere Orlando ed Emiliano, o tenerli rigorosamente lontani per fare scendere il livello della partecipazione alle primarie di tanto da delegittimare la vittoria di Renzi, considerandola scontata.

Alla fine i due ex Pd, ora Dp, debbono avere optato per il boicottaggio delle primarie, pensandosi magari favoriti dal solidissimo ponte festivo del primo maggio – altro che quelli che crollano di tanto in tanto sulle strade – e dalle buone previsioni del tempo. Ma hanno fallito anche in questo.

Così il buon Antonio Padellaro, che sul Fatto Quotidiano da lui fondato ma ora diretto da Marco Travaglio ha un po’ la parola e la penna più educate e umane, può tirare un sospiro di sollievo. Egli aveva temuto un tale flop ai gazebo da evocare per la successiva edizione delle primarie la famosissima frase pronunciata da uno sprezzante Giancarlo Pajetta per commentare una deludente, per lui, seduta della Camera: “L’ultimo che esce, spenga la luce”.

Padellaro, come molti altri, prevedeva “addirittura il dimezzamento” dell’affluenza alle primarie rispetto ai due milioni e ottocentomila voti dell’altra vittoria di Renzi, nel 2013. E lo stesso Renzi prudentemente si era detto soddisfatto se solo i partecipanti fossero stati superiori al milione, visto che la disaffezione è un fenomeno generale, figuriamoci poi quando viene fomentata e diventa strumento di lotta politica, come si è cercato di fare contro di lui.

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Prima di tornare a Renzi e alle sue prospettive, spendo ancora due parole sui suoi due concorrenti sconfitti. Che contavano entrambi su risultati migliori, cioè su una distanza minore dal segretario.

Orlando, con tutta la vecchia nomenklatura post-comunista rimasta nel Pd e schieratasi a suo favore, a cominciare dal presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano per finire al simpatico tesoriere rosso Ugo Sposetti, aveva accarezzato il sogno del 30 per cento dei voti. Che avrebbe potuto consentirgli, nella pur improbabile ipotesi di una ricostituzione del centrosinistra “ampio” auspicato da Giuliano Pisapia, di aspirare alla presidenza del Consiglio, come “l’unico -aveva detto lui stesso- capace di unire” i separati.

Il guardasigilli è stato sicuramente danneggiato dal mancato soccorso dei fuoriusciti, che avrebbero potuto presentarsi ugualmente ai gazebo dichiarandosi ancora potenziali elettorali del Pd e continuando così con altri mezzi -ripeto- la guerra a Renzi. Ma ancor più gli ha nuociuto forse quella curiosa partecipazione alla campagna contro il capo della Procura della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro. Che lui ha contribuito ad incolpare di avere voluto infangare tutto indistintamente il volontariato operante nel Mediterraneo con l’allarme sul rischio che una parte di esso colluda con gli scafisti accorrendo in tempo, su chiamata, a soccorrere in acque libiche gli sventurati imbarcati a forza dai trafficanti su natanti fatiscenti, utili solo a ridurre le spese e aumentare i guadagni.

Nella foga della sua partecipazione al discredito del procuratore di Catania il guardasigilli ha persino rotto la solidarietà di governo attaccando il ministro degli Esteri, accusato per la sua fiducia “al cento per cento” nel magistrato catanese di avere voluto indifferentemente – pensate un po’ – arruolarsi con i grillini per spirito masochistico o tornare a farsi piacere a destra, riscattandosi dal tradimento rinfacciatogli sia dai leghisti sia dai forzisti per essere rimasto al Viminale nell’autunno del 2013, dopo l’ordine di Berlusconi di lasciarlo.

Un guardasigilli che si comporta in questo modo, banalizzando a  livello di lavanderia o osteria un problema enorme come il rischio di strumentalizzazione politica ed economica del fenomeno drammatico dell’immigrazione, non può essere francamente attendibile come aspirante né alla segreteria di un partito considerato centrale per gli equilibri del Paese né alla guida di un governo di coalizione di centrosinistra miracolosamente più solido di quelli autoaffondatisi, tutti, negli ultimi vent’anni e più della storia italiana.

Sulle difficoltà fisiche, poi, che avrebbero danneggiato Emiliano, azzoppatosi durante un ballo al di sopra delle sue capacità, non vorrei calcare troppo la mano esprimendo l’opinione che proprio quell’incidente gli abbia garantito un’esposizione mediatica superiore ai suoi presunti meriti politici.

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Ed ora veniamo a ciò che si è scritto e si potrebbe ancora scrivere su come Renzi intenda o possa investire il successo del suo ritorno effettivo alla guida del Pd.

Più delle congetture e dei retroscena, come spesso si chiamano enfaticamente le fantasie di cronisti, analisti e quant’altro, voglio rimanere al resoconto che Eugenio Scalfari ha fatto, proprio nel giorno delle primarie, di una “lunga conversazione telefonica” avuta mercoledì scorso con l’ormai amico Renzi. Che, arcisicuro di vincere la partita, gli ha garantito o promesso, come preferite, che lascerà a Palazzo Chigi l’amico e conte Paolo Gentiloni sino alla fine “ordinaria” della legislatura, cioè sino alla primavera dell’anno prossimo.

Renzi è inoltre riuscito a convincere “purtroppo”- parola dello stesso Scalfari – il suo interlocutore, che in precedenza gli aveva consigliato il contrario, dell’opportunità di tornare dopo le elezioni a Palazzo Chigi, conservando anche la carica di segretario. E ciò – gli ha spiegato – per meglio portare avanti la  missione che più di tutte proprio Scalfari gli ha in qualche modo affidato, pur non avendolo voluto votare alle primarie per non fargli “montare troppo la testa”. E’ la missione di una riforma davvero federale e sovranazionale dell’Europa, visto che – potrei aggiungere con qualche ironia – non gli è riuscito di riformare la Costituzione italiana.

Sulla praticabilità, oltre che utilità, di un ritorno di Renzi anche a Palazzo Chigi è forse bene fermarsi a dire che chi vivrà vedrà.


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