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Come si sono mossi gli Stati Uniti per l’incontro tra Serraj e Haftar

Alla fine, le pressioni internazionali hanno prodotto l’esito sperato: il capo del Consiglio presidenziale libico Fayez al-Serraj e il dominus di Tobruk, il generale Khalifa Haftar, si sono incontrati ieri ad Abu Dhabi. È la prima volta che i due rivali si vedono a tu per tu dal gennaio 2016, quando il governo tripolino scaturito dall’accordo di Shkirat si era appena formato. Un accordo che ora, dopo il bilaterale tra Sarraj e Haftar, dovrebbe essere parzialmente emendato per consentire all’uomo forte di Tobruk di ritagliarsi un ruolo nel processo di pacificazione e riunificazione della Libia.

Organizzare un summit tra i due maggiori esponenti del frastagliato quadro politico libico è stata impresa difficile. Un analogo tentativo condotto dall’Egitto lo scorso febbraio era fallito miseramente, per il rifiuto di Haftar di vedere Serraj nonostante ambedue si trovassero al Cairo. Se stavolta è andata bene è perché gli attori internazionali che si muovono nell’agone libico hanno esercitato notevoli pressioni su Haftar, restio a trovare un accomodamento con la controparte che non fosse l’esito di una prova di forza. Secondo quanto riferisce l’agenzia di stampa kuwaitiana Kuna, decisivo sarebbero stato il ruolo dell’ambasciatore statunitense in Libia Peter William Bodde, che nei giorni scorsi ha incontrato Haftar negli Emirati Arabi Uniti. Bodde avrebbe manifestato al generale tutta l’insoddisfazione americana verso lo stallo del negoziato tra Tripoli e Tobruk. Una fonte tunisina vicina all’ambasciata Usa a Tunisi ha rivelato a Kuna che “la pazienza di Washington si sta esaurendo a causa del protrarsi” delle discussioni tra i libici circa “il conseguimento di una soluzione politica all’attuale crisi”. Parole dure, che tradiscono la preoccupazione americana per il ruolo che la Russia si sta ritagliando in Libia, dove Mosca si è recentemente aggiunta al novero dei Paesi che sostengono il generale Haftar.

Le pressioni americane su Haftar arrivano a pochi giorni dall’incontro a Washington tra Donald Trump e il premier italiano Paolo Gentiloni, durante il quale il presidente Usa ha affermato di “non vedere” un ruolo del suo Paese nella crisi libica. Parole studiate, evidentemente, per coprire lo sforzo americano di responsabilizzare gli alleati arabi affinché si adoperino – oltre che per neutralizzare il tentativo russo di incunearsi nella crisi – per trovare un’intesa tra Tobruk e Tripoli. E così, di fatto, sembra essere andata. Gli Emirati Arabi Uniti, attraverso la leadership del principe Sheikh Mohammed bin Zayed al-Nahyan., sono riusciti nell’impresa di far sedere intorno ad un tavolo i leader dei due governi rivali e a strappare loro un embrione di accordo.

Non essendoci stata una dichiarazione comune alla conclusione del vertice di Abu Dhabi, i termini dell’intesa tra Serraj e Haftar sono ancora sconosciuti. Ma alcuni dettagli sono trapelati: si parla di elezioni presidenziali e parlamentari per il marzo 2018 e, soprattutto, di una ridiscussione della clausola dell’accordo di Shkirat in base alla quale spetta al governo di Tripoli la nomina degli ufficiali militari, clausola che ha finora sbarrato la strada all’Esercito Nazionale Libico guidato da Haftar verso l’inclusione nel Governo di Accordo Nazionale.

Se elezioni saranno, è evidente però che Haftar punterà al colpo grosso: diventare presidente della Libia. Non a caso, all’incontro di Abu Dhabi Haftar si è presentato in abiti civili per una photo opportunity con Serraj che rappresenta l’icona della contesa elettorale che si consumerà in vista del voto del marzo 2018.



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