Marine Le Pen è consapevole che domenica prossima Emmanuel Macron sarà eletto presidente della Repubblica. Ma ha pure la certezza di conquistare l’opposizione cancellando tutti i possibili concorrenti a questo ruolo. Sa anche che la partita decisiva si giocherà a giugno quando i francesi si recheranno a votare per il rinnovo dell’Assemblea nazionale. E’ proiettata realisticamente dunque alle legislative, mentre l’Eliseo resta sullo sfondo. E cinque anni passano presto soprattutto se in Parlamento potrà mettere di difficoltà Macron o addirittura condizionarne le scelte con una rappresentanza che questa volta dovrebbe essere particolarmente consistente, nonostante il “doppio turno” sia oggettivamente penalizzante per i candidati del Front national.
E’ per questo motivo che nelle ben tre ore di dibattito televisivo (in verità piuttosto noioso) la Le Pen ha spinto sull’acceleratore dei suoi temi tradizionali nulla concedendo all’avversario, ma rivolgendosi a lui proprio come la leader della Francia che si oppone a Macron. Di tutta quella parte del Paese che nel candidato di En Marche! vede il tecnocrate intenzionato a proseguire le politiche europeiste di Sarkozy e di Hollande, incapace di combattere adeguatamente il jihadismo islamista, poco incline a proporre misure per arrestare il declino francese, addirittura soggiogato della vulgata che vorrebbe il suo Paese responsabile di crimini contro l’umanità come ha detto nel corso di uno sciagurato discorso in Algeria.
Questa Francia che non lo voterà ha scelto la Le Pen, la “preferenza nazionale”, il disconoscimento dell’Unione europea. E poco male se non ha capito bene, perché le è stato spiegato male, che cosa significhi uscire dall’euro e la conseguente possibile circolazione della doppia moneta (non è una questione che si può liquidare con una risata, come ha fatto Macron, ma una seria proposta se intelligentemente articolata: non sarebbe la prima volta nella storia, del resto): chi rifiuta la prospettiva ritenuta ineluttabile dell’impoverimento, la denatalità, la subalternità francese, la sottomissione al politicamente corretto per non far torto a nessuno ha già scelto. E’ contro le élites, contro la globalizzazione, contro lo star system, contro la spettacolarizzazione del nichilismo morale, contro l’alta finanza, contro il melting pot culturale: è quasi la metà dell’elettorato. Che la Le Pen perda con il 40 o 45% sarà per lei ed il suo partito comunque un successo inimmaginabile cinque anni fa. In Francia alle presidenziali non s’è mai vista finora una sconfitta più “vittoriosa”. E se la sinistra di Mélenchon non avesse optato per l’astensione probabilmente la partita sarebbe stata ancor più incerta fino all’ultimo voto.
Macron è la “novità” a cui si è aggrappato l’establishment in assenza di “cavalli di razza” da far correre. Ed ha scelto bene: non è un “corsaro” alla Sarkozy, ma un solido prodotto dell’Ena, della banca Rothschild, dello stesso Eliseo frequentato da consulente e da segretario generale prima di diventare ministro dell’Economia. Non farà scherzi, dunque, e terrà la barra dritta verso Bruxelles e Francoforte. L’altra metà (e un po’ di più) non vuole avventure: si fida del “sistema”, è garantita dalle politiche monetarie che si elaborano in Europa, è disponibile a “sacrifici” che può sopportare. Per quanto infastidita dal disagio di dover convivere con la paura che il terrorismo islamista provoca, ritiene che il sistema di sicurezza sia sostanzialmente accettabile. Il cosmopolitismo in cui si riconosce la lascia indifferente di fronte alle minacce della cosiddetta “sostituzione etnica” agitata dai “patrioti identitari”. E’ l’elettorato che meglio interpreta lo spirito della Grande Rivoluzione nel tempo della post-modernità.
Forse se gli intellettuali che ci hanno riempito di dotte dissertazioni in questi ultimi anni sulla “fine della Francia”, sulla “sottomissione”, sul pericolo del radicalismo islamico, sulla “decadenza” avessero preso posizione, fossero scesi in campo per combattere la loro battaglia accanto a chi ha mostrato di condividere le loro preoccupazioni “teoriche”, una parte dell’opinione pubblica avrebbe recepito le loro preoccupazioni pur senza modificare l’esito finale. Invece si sono distratti: sul terreno politico non si sentono a loro agio, scivolano come calciatori su un terreno eccessivamente bagnato proprio nel momento in cui dovrebbero tirare in porta. Loro, gli intellettuali deraciné, sradicati dal contesto che hanno frequentato per decenni, di destra o di sinistra poco importa, di fronte alle convulsioni contemporanee non sanno o non vogliono scegliere. Stanno a guardare, stanchi dopo aver versato fiumi d’inchiostro sull’agonizzante società che non comprende i loro lamenti.
Ecco, anche l’intellettuale “disimpegnato”, che mai voterebbe Macron, non voterà neppure la Le Pen: i suoi pensieri in questa campagna elettorale sono andati in vacanza, salvo tornare tra qualche giorno per inondarci delle solite avvilenti contumelie contro il Potere, il Sistema, l’Unione europea ed i ricchi Stati arabi che armano il Califfo.
Poco più di due secoli fa, il sublime e corrosivo conservatore Antoine Rivarol, sul suo Journal politique, annotava: “In Francia il corpo politico ha bisogno d’un padrone più che in ogni altro Paese. La sovranità del popolo ucciderà tutti i re, se essi continuano a tenere il diadema sugli occhi invece che sulla fronte”. Parole che sembrano scritte in questi giorni: basta sostituire la parola “re” per capire come le democrazie sono altrettanto vulnerabili delle monarchie assolute quando sono cieche.