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Rischi, sfide e potenzialità del mondo fintech

Di Sebastiano Barbanti
Giuseppe Vegas

Nella sua ultima relazione del settennato passato alla presidenza della Consob, Vegas ha riservato un passaggio su una tematica che in realtà meriterebbe un approfondimento molto dettagliato: il fintech.

Che il modello disruptive evidenziato dalle fintech avrà un impatto rilevante lo dimostra il confronto con altri settori che si sono già scontrati con la rivoluzione digitale: basti pensare a musica, viaggi e video. In soli 10 anni abbiamo visto nascere ed imporsi alla quotidianità siti come itunes o Spotify, Expedia o Booking, Netflix. Chi si è mosso prima e meglio ha visto crescere i profitti ed ha dato vita ad un mercato molto concentrato: se nel mercato “fisico” le 3 maggiori imprese costituivano il 45% del settore, nel nuovo mondo rappresentano l’80%.

In Cina società come Alipay e Tencent hanno ormai un numero di clienti paragonabile a quelli degli istituti classici e se nel 2010 gli investimenti privati in società fintech erano pari a 1,8 miliardi di dollari, nel 2015 sono cresciuti sino alla cifra di 19 miliardi. Ma la “tempesta perfetta” nasce dall’incontro dell’offerta con la domanda. Nell’era 2.0, infatti, i clienti pretendono molto di più e molto più velocemente: se nel 2009 il 70% dei clienti usava la filiale, oggi 2 contatti su 3 avvengono via digitale e, secondo un rapporto della Juniper Research dal titolo “Retail Banking: trasformazione digitale & Disruptor Opportunities 2017-2021”, entro il 2021 quasi 3 miliardi di utenti potranno accedere ai servizi bancari al dettaglio tramite smartphone, tablet, PC e smartwatches, con una crescita del 53% rispetto al 2017.

La novità, adesso, è che il presidente Vegas è stato forse il primo rappresentante di un’authority a far registrare una seria preoccupazione in merito ai “problemi drammatici di tenuta del sistema delle banche” dovuti alla crescita del settore fintech e che bisogna evitare il “far west” normativo. Ma qual è il ruolo che deve esercitare il regolatore? Premesso che bisogna evitare un eccesso di regolamentazione che finirebbe con il rendere la nostra economia arida per questo settore con la conseguenza di avvantaggiare nazioni più competitive, ritengo che siano almeno due gli ambiti da tenere in considerazione: c’è l’aspetto sociale e quello “industriale”.

Per ciò che attiene al primo aspetto, ci troviamo davanti ad una grande opportunità di incrementare l’inclusione finanziaria sia per le persone fisiche che per le imprese. Il p2p lending o il crowdfunding consentono l’accesso al credito a soggetti non bancabili o diversamente bancabili, il roboadvisor rende più accessibile (in termini di costo/efficienza) la gestione del personal finance, i servizi di money transfer e payment rendono meno onerosi e più semplici pagamenti e scambi di denaro dando un ulteriore impulso all’e-commerce e rispondendo all’esigenza di avere sempre a disposizione la propria disponibilità finanziaria. E si pensi anche ad un altro settore ancora poco trattato: l’insurtech. Lo sviluppo dell’IoT e l’analisi dei big data consentiranno una personalizzazione spinta dei profili di rischio, e quindi di prezzo, dei prodotti assicurativi: si pensi alla possibilità di poter avere una polizza RCA con un profilo di rischio costruito sulla base dello stile di guida, della modalità di utilizzo dell’auto, dei parametri psico-fisici. La classificazione bonus-malus diventerebbe obsoleta mostrando tutti i suoi limiti e lascerebbe spazio ad una serie di comportamenti virtuosi, con grande beneficio della collettività, per ottenere vantaggi economici.

Nuovi paradigmi, nuovi mercati, nuovi canali necessitano però adeguate normative al fine di garantire la tutela dei risparmiatori, la privacy dei dati personali trattati, i processi di KYC (know your customer) (è interessante a tal proposito lo stanziamento di 500mila euro da parte della Commissione Europea per l’istituzione di un osservatorio sulla Blockchain) e di AML (antiriciclaggio di denaro) e l’elaborazione una cornice normativa in grado di garantire la pacifica convivenza tra operatori tradizionali e le nuove startup del Fintech.

Questo ultimo aspetto ci porta direttamente al secondo tema: quello “industriale”. Se lo Stato vuole governare il cambiamento con lo scopo di mantenere, o meglio accrescere, il benessere della collettività, deve necessariamente ripensare al modello di sviluppo, alle politiche industriali, di fronte alla nascita di nuovi settori, nuovi lavori, nuovi modelli di servizio. In un recente studio Citigroup differenzia un’innovazione che consente di affrontare le contingenze del presente da quella in grado di resistere più a lungo. Nella prima categoria ci sono le tecnologie che rendono i servizi più economici; nella seconda vi sono quelle più sfidanti poiché cercano di fare qualcosa di diverso. Da un lato si colloca l’innovazione che rende più economici i meccanismi esistenti, dall’altro l’innovazione che crea un meccanismo nuovo. La prima tipologia di innovazione può anche essere implementata dalle banche tradizionali (si pensi ad alcuni tipi di pagamenti digitali ed al robo-for-advisor o al robo-advisor) mentre la seconda necessita di skill e fattori abilitanti di diverso tipo. Il report riassume il tutto con “Different is better than cheaper”.

Tra banche tradizionali e fintech la strada della collaborazione è inevitabile poiché, ad oggi, l’una ha quello di cui ha bisogno l’altra e viceversa: le fintech hanno bisogno di clientela, reputazione, capitale; le banche di semplicità, velocità, innovazione. Inoltre all’orizzonte si intravede l’emersione di uno scenario che potrebbe creare ulteriori opportunità: l’hub fintech europeo per eccellenza è situato a Londra poiché in quella sede vi sono tutti gli headquarters delle banche mondiali ed ogni banca ha al suo interno un “acceleratore” di impresa. Con la Brexit si presume verranno a maturare le condizioni per cui le banche non trovino più conveniente mantenere lo status quo e lasceranno in massa la City aprendo una grande contesa sul dove potrà essere creato il nuovo hub.

L’Italia deve cogliere al volo l’opportunità di candidarsi a nuovo hub fintech europeo. Ciò significa ingresso di ingenti capitali stranieri, creazione di posti di lavoro sostenibili, importazione di risorse con skill di eccellenza internazionalmente riconosciuti, indotto per tutto il settore dell’innovazione a 360 gradi, internazionalizzazione delle nostre imprese. Per far ciò, però, è necessario creare una nazione “fintech friendly”. Due sono le azioni da poter metter in campo. La prima è quella della creazione di un humus fertile in cui è possibile far nascere e sviluppare start-up in maniera agile e veloce: devono essere create delle free-zone in cui, stabiliti gli obiettivi strategici di sviluppo di una certa area, si creino le regole affinché si possano attrarre investitori e imprenditori grazie all’assenza di burocrazia, ad un sistema giuridico semplice e rapido e ad una fiscalità competitiva. La seconda è quella di metter in campo una serie di azioni mirate specificamente allo sviluppo del mondo fintech: analogamente a quanto fatto in UK, si deve prevedere una sandbox regolamentare in cui i processi autorizzativi siano facilitati e per via di autocertificazione con successiva verifica della correttezza ed interazione continua con i regolatori, autorizzazioni Banca d’Italia in “realtime” con definitiva in 3 mesi e supporto alla validazione in altri paesi UE, deroghe al codice della privacy per collaborazioni start-up/banche, facilitazioni del processo di onboarding, abbassamento della sogli investor visa per il settore fintech, incentivazione agli investimenti dei FIA, innalzamento delle soglie di crowdfunding per investitori comunitari.

Queste solo alcune delle proposte che sarebbe possibile implementare insieme alla figura di un Referente Fintech per l’Italia che diventi un punto di riferimento per le aziende del settore, che si occupi, insieme agli operatori del settore, della revisione costante della sandbox, che promuova incontri con Venture Capital, che crei un pool di professionisti (avvocati, notai, commercialisti, giuslavoristi…) a supporto delle start up fintech, che dialoghi con il presidente del Consiglio.

Il CEO di JPMorgan Chase, Jamie Dimon, ha annunciato che la banca lo scorso anno ha investito 600mln di dollari in fintech solutions. Dal prossimo anno il recepimento della direttiva PSD2 abbatterà definitivamente ogni residuo di barriera all’operatività delle fintech. Ogni spazio lasciato libero dalle banche sarà certamente riempito dalle startup, permettendo a nuovi attori di affacciarsi al mercato e consentendo loro di accedere a informazioni e iniziare ad operare sui conti dei clienti.

Il treno del fintech sta passando ora: sta a noi decidere se salirci sopra da protagonisti oppure vederlo passare e condannare il nostro sistema bancario e finanziario ad una incerta lotta per la sopravvivenza.

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