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La concezione del potere secondo la tradizione liberale

sindacati

(La prima parte si può leggere qui)

Ci sono però anche altri vocabolari del potere, che non parlano soltanto dell’innato istinto di dominio dell’uomo e della sua speculare, congenita inclinazione all’obbedienza. C’è il vocabolario delle donne, anzitutto di quelle donne che hanno saputo affilare le proprie armi – la bellezza, l’intelligenza, la seduzione, l’astuzia – per mettere in discussione l’arbitrio maschile nella politica, nella cultura, nell’arte. C’è poi il vocabolario di quella tradizione liberale che, partendo dai moralisti scozzesi (David Hume, Adam Smith e prima ancora il loro maestro Francis Hutcheson) e dalla nozione di “simpatia”, ha visto il suo ideale compimento nella Scuola austriaca di economia. Si deve in particolare a Lorenzo Infantino, infaticabile promotore in Italia del pensiero di Carl Menger, Eugen Böhm-Bawerk, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek, il tentativo di sviluppare il discorso liberale sulla natura del potere in un contesto più vasto: una teoria generale del potere sociale (Potere. La dimensione politica dell’azione umana, Rubbettino, 2013).

Come ha osservato Alberto Mingardi, il docente della Luiss adotta una prospettiva non lontana da quella di un grande liberale italiano: Bruno Leoni. Proprio il discepolo di Gioele Solari è l’artefice, sul finire degli anni Cinquanta, di una delle più originali trattazioni in chiave liberale del concetto di potere. Le sue Lezioni di dottrina dello stato (Rubbettino, 2004) segnano una sorta di rivoluzione copernicana nell’infinito dibattito sull’origine e le radici del potere, che ribalta il vecchio primato dell’elemento conflittuale e lo sostituisce con il primato dell’elemento cooperativo. Per Leoni gli individui si scambiano incessantemente beni (economia), pretese (diritto), poteri (politica), e da questi scambi si formano “dal basso” gli assetti istituzionali in cui si articola la sovranità statuale.

Anche “l’archeologo dei saperi” Michel Foucault nutriva la stessa insoddisfazione per le teorie del potere che privilegiano il suo lato coercitivo. In uno splendido saggio, Antonio Masala ha messo in rilievo le singolari convergenze tra uno dei numi tutelari della gauche francese e un liberale – con tendenze libertarie ante litteram – come il presidente della “Mont Pelerin Society” (Riflessioni sul potere. Un confronto tra Bruno Leoni e Michael Foucault, in Le ragioni della libertà, a cura di R.A. Modugno, Rubbettino, 2014). Entrambi, in effetti, considerano il potere come una rete di relazioni tra individui diffusa in tutto il corpo sociale. E per entrambi il problema dello Stato va analizzato a partire dalla struttura delle relazioni umane, dalla “microfisica del potere”, e non da una sovranità che proviene dall’alto. Il capolavoro di Leoni, Freedom and the Law (La libertà e la legge, Liberilibri, 1995, pubblicato in inglese nel 1961), è un aspro atto d’accusa contro il positivismo giuridico, contro ogni concezione del potere inteso come strumento di dominio e non di cooperazione tra individui diversi.

La critica di Foucault al formalismo giuridico, che irrigidisce il potere in “un fenomeno di dominazione compatto e omogeneo”, si muove nello stesso solco. Per il grande storico della follia, del crimine, della sessualità, era necessario sbarazzarsi del “modello del Leviatano”: “Le relazioni di potere sono sia quelle che gli apparati dello stato esercitano sugli individui, sia quelle che esercita il padre di famiglia sulla moglie e sui figli, il potere che esercita il medico, il potere che esercita il notabile […] Non c’è dunque una fonte unica dalla quale scaturirebbero come per emanazione tutte queste relazioni di potere […]” (“Il potere, una bestia magnifica”, ora in Biopolitica e liberalismo, Medusa, 2001).

Pochi decenni prima di Leoni e Foucault, commentando la morte di Lenin, Antonio Gramsci aveva affidato le sue riflessioni sul potere al settimanale Ordine Nuovo (1 marzo 1924). Esse si collocano agli antipodi della tradizione liberaldemocratica, ma offrono qualche spunto di discussione su un tema che da almeno un ventennio monopolizza le cronache della politica domestica. “Ogni Stato – scriveva l’allora segretario del Partito comunista – è una dittatura. Ogni Stato non può non avere un governo, costituito da un ristretto numero di uomini, che a loro volta si organizzano intorno a uno dotato di maggiore capacità e maggiore chiaroveggenza. Finché sarà necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un capo “. Gramsci teorizzava dunque in modo netto la necessità di quella leadership carismatica che oggi viene vista col fumo negli occhi dai suoi (sedicenti) eredi, né mancava di deridere la posizione di “quei socialisti [che sostengono di volere] la dittatura del proletariato, ma di non volere la dittatura dei capi, […] che il comando si personalizzi”. Gramsci si riferiva ovviamente al partito operaio, ma non è certo un caso che tutte le esperienze totalitarie – di destra e di sinistra – si siano rette su un culto della personalità assoluto, che saldava bisogno di adorazione delle masse e megalomania del leader.

Concludo con una nota di pessimismo. D’altronde, come ha scritto il (da me) compianto Giovanni Sartori, il pessimismo è pericoloso solo se induce alla resa; altrimenti il male lo fanno l’ottimismo e il tranquillismo che inducono a non far niente. Il teatro, la democrazia e le Olimpiadi sono coetanei. Nacquero circa due millenni e mezzo fa in Grecia. All’ombra dell’Acropoli, “si intrecciarono rappresentazione, rappresentanza e competizione: così nacque la politica” (Oliviero Ponte di Pino, Comico & Politico, Cortina, 2014). In questo processo il teatro ha avuto un ruolo centrale, perché fare parte di un pubblico non era soltanto un aspetto della vita sociale della città: era anche un gesto politico fondamentale. Infatti, sedersi come spettatore che valuta e giudica significava partecipare come cittadino, come soggetto politico. Ed è stata in particolare la tragedia a offrire lo strumento cardinale per questa trasformazione, a costituire la specifica forma estetica su cui poggiava la democrazia ateniese. Ebbene, il pericolo che la democrazia italiana divenga il teatro di un’altra forma estetica, quella della commedia dell’arte di Arlecchino e Pulcinella (portentosa messa in scena del nostro atavico istrionismo), a mio giudizio oggi c’è e non è da sottovalutare.


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